Molière (1622- 1673) ovvero Jean Baptiste Poquelin, fu uomo di teatro a tutto tondo, autore, attore, regista e, con scarso successo, anche impresario: non a torto viene definito il maggior autore comico di tutti i tempi.
Mettendo a frutto gli insegnamenti dei comici dell’Arte, egli capì che il segreto del successo era adattare la lingua del teatro ai luoghi della provincia francese che percorreva con la sua troupe, alternando la tragedia alla farsa ed usando in entrambe alcuni elementi visivi ad effetto, tipici degli improvvisatori.
Più tardi, raggiunto un certo benessere a causa della protezione della famiglia reale, il suo teatro esprimerà l’intimo più vero dell’autore, dell’uomo che conosce solo le regole della ragione e che sfida la società organizzata ed i suoi dettami.
Sostenitore della “morale naturale”, nemico di tutte le costrizioni imposte all’uomo, comprese quelle della legalità, egli fu capace di inserire alti toni di umana intensità in situazioni volutamente anguste (vedi “Misantropo” e “Don Giovanni): “non pretendete di convertirvi, correggervi, costringervi, restate come siete!”
“Il malato immaginario” è un’opera particolarmente significativa in quanto ultima scritta (risale al 1673) ed ultima interpretata dallo stesso autore, che infatti morì pochi giorni dopo l’inizio delle rappresentazioni, dopo aver interpretato il personaggio principale di Argante.
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Una commedia certamente autobiografica, soffusa di malinconia e di presagi della fine, come fa intuire a tratti il testo essenziale, che appare come opera summa del pensiero dell’autore, ancora una volta intriso di attacchi verso i poteri forti, stavolta verso la classe dei medici e dei farmacisti.
E palesemente il nostro parteggia per le modalità del corretto maritarsi, comprensivo del diritto al consenso da parte della donna, fustigando i costumi dell’epoca del matrimonio combinato per interessi famigliari.
Ma anche opera intimista con il volto di Giano bifronte: intanto, questo malato è veramente fou, un pazzo, secondo il significato francese di “immaginario” dell’epoca?
O è piuttosto il profilo di una ben conosciuta figura umana, quella di chi rincorre un malessere dopo l’altro (che magari sfocia in una reale malattia, secondo la nota osmosi tra psiche e fisico) per catturare l’attenzione e “l’affetto” dei conviventi?
O meglio nasconde una componente frequente della psiche, credersi e farsi credere sofferente per avere l’alibi di non affrontare la vita vera, le sue molteplici sollecitazioni che esigono decisioni e responsabilità, le sue svolte di percorso fondamentali ma quasi sempre prive di segnaletica?
Un testo che rammenta allo spettatore un rischio strisciante inserito nella vita di ogni uomo: quello di non comprendere, di non affrontare il suo primo dovere vitale di dare alla luce sè stesso.
Argante forse comprende, ma non ce la fa proprio a “lasciare il letto” senza l’aiuto dell’assennato fratello nonchè della vitale ed astuta Tonina.
Lavoro piacevole, scorrevole e per nulla cupo, di cui l’unica nota di colore grigio è l’allestimento scenico spoglio. Buona l’interpretazione, ottima quella della cameriera che ci offre un personaggio decisionista di duttile perizia interpretativa, in contrasto con la personalità plasmabile del protagonista.
La commedia è al Teatro della Corte fino al 14 di gennaio, per la regia di Andrée R. Shammah, interpretato da Gioele Dix, Anna Della Rosa, Marco Balbi,Valentina Bartolo, Francesco Brandi, Piero Domenicaccio, Linda Gennari, Pietro Micci, Alessandro Quattro, Francesco Sferrazza.
Elisa Prato