Vale la pena riprendere, in sintesi, l’imponente argomento della “competenza” (la qualità del fare individuale in relazione all’esperienza), proprio per il fatto che essa è oggi così individualmente ostentata, da indurre un contagio da vaniloquio.
La premessa verte sull’esigenza di capire, prima o poi, quanto e su cosa ciascuno di noi fondi la certezza di potersi fregiare del titolo di “competente”.
Stante ciò, in un tal dedalo di asserzioni sguaiate e, il più delle volte, malriposte, la “competenza”, ben oltre l’ambito professionale, ha il gravoso obbligo di saper distinguere la seta dagli stracci. Ed da ogni altro tessuto.
Per realizzare tutto ciò, di quali elementi disporre? Certamente, non basarsi sulle esternazioni autogene, su scenografie improvvisate, su effetti coreografici.
Possiamo infatti, con più facilità, distinguere e comprendere la competenza nell’abilità manuale: per esempio, nella facilità di un meccanico nel capire le cause del malfunzionamento della nostra auto. Non certo dall’enumerazione narcisistica dei veicoli agonizzanti che il suo ego afferma di aver rimesso in pista.
Così, tale riconoscimento può avvenire per dimestichezza, manualità, prontezza, intuizione. In buona sostanza, assumendo i fatti come parametri indiziari.
Tuttavia, non è facile districarsi da tutti i possibili raggiri e mistificazioni che da ogni lato ci assalgono, il più delle volte auto-inflitti dalla nostra stessa credulità. Ed anche da una personale “in-competenza” che ci trova causa delle stesse nostre lacune.
E poiché smodati bisogni si ramificano esponenzialmente senza posa, fertilizzati da questa iper-realtà semiurgica, la “competenza” diviene la categoria essenziale per riuscire a discernere, in cotanto panorama, il poco utile dal tanto superfluo.
Sotto tale aspetto, la competenza è un tentativo da fare per emanciparsi dal vaniloquio che contagia l’esistenza umana.
Massimiliano Barbin Bertorelli