La questione che tra due individui possa esercitarsi una qualsivoglia forma di “asimmetrica attrazione” va ricondotta, come habitus quotidiano, all’assegnazione della quota di importanza e credito che un soggetto riserva all’altro, in subordine ad una propria malcelata condizione di bisogno.
Per meglio tradurre il concetto in termini gerarchici, ne è ideale esemplificazione il contesto lavorativo. Sapere infatti che quella data persona è il “capo”, rispetto al non esserne a conoscenza, connota e adatta sensibilmente il grado e le modalità di relazione.
Un conto è, infatti, stabilire una comunicazione tra “pari”, un conto tra “dispari”, nelle usuali dinamiche sociali.
E’ la personale addizione o sottrazione di valore che applichiamo a noi stessi ad identificare il tipo di rapporto intrattenuto, derivandone un atteggiamento tendenzialmente proteiforme, sulla falsariga dei film “Zelig” di Woody Allen o del “Fantozzi” della omonima saga.
A tal proposito, non si può certo dire frutto-del-caso la forza di carattere, talvolta l’aggressività, che quest’ultimo personaggio ostenta a livello domestico, quindi nel sua zona protetta; e, in opposta misura, la sua sottomissione in ambito lavorativo o sentimentale, rispettivamente dinanzi al proprio superiore od alla collega di cui è invaghito.
Non molto diversamente accade nella vita reale ed ordinaria, quando esiste uno specifico interesse personale, funzionale a finalità più o meno esplicite e materiali.
In buona sostanza, l’assenza di bisogni più o meno impellenti e, propedeuticamente, una equilibrata condizione personale di accettazione di sé, riescono a comporre un efficace diagramma in cui ciò che si possiede corrisponde a ciò che si vuole, esonerando da una forma di at-trazione, da una incontrollabile “forza”, che, in applicazione del generale principio fisico dei vasi comunicanti, entra con una quota pari a quella con cui esce.
Massimiliano Barbin Bertorelli