Gi Bi Peluffo è nato a Savona e vive ad Albissola. E’ un Fotoreporter free-lance. Collabora con prestigiose Agenzie giornalistiche e pubblicitarie italiane quali AGF-Foto.
Si è occupato di Fotografia Sportiva (Calcio: Genoa e Sampdoria dal 2004 al 2011), Cronaca, Attualità, Architettura, Arredamento, Still-life, Pubblicità con produzione di brochure, Paesaggio per valorizzare territori, Book, Ritratto posato, Eventi di ogni tipo, Matrimonio d’Autore con produzione di libro digitale, Spettacoli e Balletti.
E’ docente unico di un corso fotografico personale basato sull’educazione alla visione che ha portato alla Scuola Media di Stato, nei Licei, all’Università di Genova al corso di Laurea sull’Architettura del Paesaggio.
Ha sviluppato la specializzazione di Fotoreporter Umanitario lavorando per Emergency (reportage in Sierra Leone, Cambogia, Sudan, Repubblica Centrafricana), UNICEF (Repubblica di Moldova), Forum Bambini di Chernobyl (Bielorussia), Padri Carmelitani Scalzi (Repubblica Centrafricana). Produce opere di Computer-Art che stampa su tela.
Nel corso del 1993 la Federazione lo ha nominato Artista Fotografo Italiano, per i suoi meriti artistici. Ha poi ottenuto, nel 1997, il massimo riconoscimento con la consacrazione a Maestro della Fotografia Italiana (oggi unico in Liguria). Nel 2014 l’Associazione Renzo Aiolfi gli ha attribuito l’omonimo premio “Per le sue immagini di pace dall’Italia e dal mondo”.
Ed ecco una simpatica chiacchierata con il maestro della fotografia.
“Cosa prova quando fa una foto?”
Intanto, la prima cosa che mi spinge a fotografare è la motivazione, che è l’amore.
Però non fotografo mai una cosa che mi piace e basta. Se faccio quella fotografia, è perché l’ho pensata prima, l’ho immaginata prima, l’ho coltivata dentro di me e poi, ho cercato di realizzarla per quello che c’era dentro di me, non fuori.
“Ciò che prova quando fotografa, lo prova anche in post produzione o prova emozioni diverse?”
Io vengo dalla pellicola, ho sempre stampato le fotografie che scattavo in camera oscura e, per me, la camera oscura era importante tanto quanto lo scatto, diciamo che la sua importanza era al 50%, perché durante questo procedimento praticamente si rifà la fotografia da capo, proprio a cominciare da tempi, diaframmi, mascherature e tutto ciò che fa parte di quel sistema.
La stessa cosa, l’ho un po’ ritrovata anche nella cosiddetta “camera chiara”, cioè la post produzione digitale, solo che, mentre il lavoro di camera oscura era una cosa possibile soltanto a pochi eletti, poche persone che avevano la pazienza e la grande abilità di riuscire a fare quel tipo di lavoro, adesso è diventato tutto molto più facile e alla portata di tutti.
Comunque, per me, la post produzione ha sempre un fascino particolare, è la magia della fotografia.
“Il soggetto che fotografa riesce sempre a trasmetterle qualcosa, qualche stato d’animo ed in che modo lo fa?”
Dipende: se io fotografo un paesaggio, per esempio, dentro c’è uno stato d’animo mio, suggerito anche dalla scena che fotografo, c’è una corrispondenza di sentimenti tra il dentro e il fuori; diverso, invece, per le persone.
Ad esempio, io ho fatto tante foto nel campo umanitario e lì, cercare di mettere la mia firma su quel tipo di foto, “usare” le persone, non per quello che sono, ma perché io voglio raffigurarle in un modo che mi contraddistingue, la trovo un’operazione eticamente non buona, lo trovo immorale, per cui, quando fotografo le persone nel campo umanitario ( sono stato tanti anni in Africa ed anche in Oriente…) cerco sempre di ridurmi al minimo, cioè di rappresentare senza abbellire e senza drammatizzare teatralmente quello che sono quelle persone, per dare una testimonianza della loro vita, del loro modo di essere, delle loro condizioni, spesso infelici…
Non voglio intervenire troppo forzatamente con un mio modo, un mio stile… Mi sembra più giusto che le persone vengano fuori per quello che sono nella realtà.
“C’è una foto che avrebbe voluto fare e non ha fatto ed una che ha fatto e dopo si è pentito d’averla scattata?”
Domanda tosta, questa… Una serie di foto, durante un viaggio, in India, dove, dal pullman- era una gita organizzata- ho visto dei campi di grano verso il tramonto, erano oro puro, distese immense di campi di grano d’oro e c’erano queste donne contadine, (che sono sempre delle signore, anche se fanno i lavori più umili) tutte vestite con dei sahari bellissimi, coloratissimi, rosso fuoco, verde malachite, turchese, che si chinavano a raccogliere il grano con la falce… ed io non ho potuto fare quelle foto, perché eravamo in ritardo ed il tour operator ci ha fatto attraversare di corsa questa valle. Valeva l’intero viaggio e mi dispiace ancora adesso, dopo tanti anni…
Un’altra foto che non ho fatto, ma che non mi è dispiaciuto non fare, è stato quando ho visto un bambino morire di anemia malarica: la mamma lo sorreggeva senza riuscirci, era tutto grigio, non riusciva a tenerlo in braccio…sono corso a chiamare il pediatra ma era già troppo tardi: il bimbo era morto. Giornalisticamente ci sarebbe stato da fare la foto al piccolo cadavere, alla madre disperata, ai parenti, tutta l’altra gente che piangeva, tutto foto che non ho fatto…cos’altro potevo fare se non piangere insieme a loro?
Non ci sono foto che non avrei voluto fare, perché, come dicevo all’inizio, quando faccio una foto, è perché la voglio, quindi, non c’è nessun rimpianto.
“Secondo lei, quali sono le caratteristiche che deve avere un fotografo ed un fotoreporter?”
Un fotografo, secondo me, dev’essere sincero.Io vedo, anche su Facebook, tante e tante foto, foto di “maniera” potremo definirle, foto di paesaggi, il mare, fatte con la macchina fotografica sul cavalletto, con tempi lunghi di esposizione, che fanno “l’effetto seta” dell’acqua e sono diventate una moda dove i fotoamatori si imitano uno con l’altro producendo tutte immagini uguali.
E poi? A che cosa servono? A niente, servono solo ad avere dei “like” su Facebook, ma, allora, se quella è la motivazione, a me non interessa …
Tutti vogliono fare delle belle foto ma non c’è niente di più inutile di una bella fotografia…
Può servire a farti sentire bravo, se hai bisogno di gratificazioni, di persone che ti mettono i “like” “ Che bravo, sei un artista…!” ; poi il massimo viene raggiunto quando ti dicono “ Che bella, sembra una cartolina!”…
Un fotografo dev’essere sincero e non voler abbellire per forza una foto per farsi sentire dire “ Bravo!”, chiaramente deve avere tecnica, perché senza la tecnica la fotografia non esiste, e poi, deve avere delle cose da dire dentro, perché se uno è vuoto come una canna e non ha niente da dire si vede anche nelle fotografie, si vede anche nella produzione fotografica che non regge a lungo nel tempo…
Di solito, questi fotografi, hanno un po’ di successo all’inizio, poi smettono di fotografare, mettono via la macchina fotografica, non ci ripensano più…
Un fotoreporter deve avere un colpo d’occhio geniale, deve riuscire a vedere quello che non vedono gli altri.
A volte la sorpresa, la validità di una fotografia è anche il riuscire a vedere cose, là dove gli altri non vedono.
Dal punto di vista umanitario, deve avere cuore, perché senza cuore, senza amore per le persone, non si riesce a fare niente…le foto diventano fredde, diventano un esercizio tecnico e basta…
Ho visto il lavoro di un fotografo, inviato anch’egli da Emergency in Sudan. Era un fotografo di moda a Milano, bravissimo, famoso. Nell’ospedale di Emergency ha scelto di fare tutte le foto a colori ma con una forte intonazione blu.
Per me è stata un’operazione orrenda, perché è stato come se avesse voluto fare moda in questo posto…
C’erano persone che stavano male, che venivano operate al cuore, gente povera, fotografata con questo alone blu, di moda…
Io l’ho trovata un’operazione tremenda; quello non è reportage!
Il reportage, come dicevo prima, deve far vedere quello che sono veramente le persone, cioè, il fotografo dovrebbe intervenire il meno possibile con la sua personalità, secondo il mio pensiero, perché, quel tipo di fotografia lì, dev’essere anche un documento ed una testimonianza.
Un breve aneddoto: quando sono andato la prima volta per Emergency, sono andato in Sierra Leone. La guerra era finita da due anni, c’era pieno di gente amputata dai machete, persone malatissime, bambini violati e abbandonati, un disastro… sapevo di dover andare a fotografare dentro l’ospedale e, soprattutto, ero terrorizzato dal dover andare in una sala operatoria. Ripensavo a quando facevo servizio alla Croce Verde di Albisola ed avevo dovuto smettere, perché era un’esperienza troppo forte e stressante per me. L’ultima volta eravamo dovuti andare dove c’era stato un incidente in autostrada…mi sognavo i feriti di notte e non sono più riuscito a continuare…
Per quest’altra occasione invece mi ha aiutato un amico, che mi ha fatto vedere un DVD di un famoso fotografo di guerra americano, si chiama Nachtway.
Era andato a fotografare la strage di Srebrenica (nella guerra tra la Bosnia e la Serbia) dove in un capannone c’erano centinaia di persone ammazzate.
C’erano tutti i parenti delle vittime, fuori che piangevano e lui era andato lì, per fare delle fotografie, ponendosi il problema di come fare a recarsi in quel luogo per fare delle foto a quelle persone a cui avevano ammazzato i figli, i mariti, i genitori… con che coraggio… mentre si faceva queste domande i parenti lo hanno avvicinato, chiedendogli, per favore, di fare le foto anche a loro, di fotografare il loro dolore e la loro disperazione, perché avevano bisogno che restasse una testimonianza di ciò che era successo, di ciò che era stato loro fatto, quindi lo avevano pregato di fare le foto.
Così ho capito il valore della fotografia in quel campo e sono andato tranquillo in Sierra Leone, ho fatto il mio lavoro, che è venuto molto bene ed è stato molto apprezzato
“Quanto conta la passione nel fotografare, sia come fotografo, sia come fotoreporter?”
La passione conta nella vita, non solo nella fotografia! Se non c’è passione, non si fa niente, non si è disposti a sacrificare niente e, quindi, non si ottengono risultati notevoli.
La passione è fondamentale, anche insegnare: anche insegnare fotografia è una passione!
“Com’è avvenuto il passaggio e quali sono le motivazioni per le quali, da fotografo, è diventato fotoreporter?”
Può essere la storia che ho scritto nel mio libro: “ Da fotoamatore a fotoreporter” che è un po’ la storia della mia vita.
Io ho cominciato come fotoamatore e poi ho voluto trasformare questo mio talento, che sicuramente avevo, in un lavoro, in qualcosa che potesse aiutarmi a vivere, a mantenermi, proprio con la fotografia. E’ stato un atto di estrema arroganza: mi reputavo così bravo da credere di poterlo fare come lavoro. Ed è stato il lavoro della mia vita, anche se, tra le rose, non sono mancate anche le spine…
La vita ti mette davanti a delle possibilità che poi sta ad ognuno di noi saper cogliere.
Proprio nel passaggio da fotoamatore a fotoreporter, tutti i fine settimana mettevo tutte le mie fotografie dentro una valigia ed andavo a Milano, a farle vedere alle redazioni delle riviste, a tutta l’editoria…
Gli editori mi facevano un sacco di complimenti: “ Ma che bravo, ma che belle…!”, però non gliene importava niente a nessuno; nessuno voleva le mie fotografie.
Poi, nel 2002, sono andato da Emergency, da Teresa Sarti, Presidente di Emergency, che era la moglie di Gino Strada, a farle vedere le mie foto di viaggio. Lei si è entusiasmata e mi ha mandato in Sierra Leone, la prima volta, poi è seguita la Cambogia, poi il Sudan, poi la Repubblica Centro- Africana, sempre per Emergency, quindi, si è aperta una strada…
Quella volta è andata bene, tutte le altre volte, era andata male; l’importante è non mollare mai, continuare ad insistere sempre; se credi in quello che fai, devi fare questo, prendendo tutte le porte in faccia che devi prendere, e che sono tante…
“C’è qualcosa, sempre come fotografo o come fotoreporter, che Le ha fatto avere dei rimorsi o dei rimpianti?”
No, rimorsi no; rimpianti neanche, direi di no…
Un rimpianto però ce l’ho, non per quanto riguarda il fotografare, ma per quanto riguarda l’insegnamento ho avuto dei rimpianti, perché insegnare è una delle mie passioni e non ho mai potuto farla al livello che volevo io, nel senso che sì, ho insegnato nelle scuole, nelle scuole medie, sono arrivato al liceo artistico, che era la scuola che avrei voluto fare io- ma mio padre mi aveva mandato alle industriali- quindi è stata una soddisfazione enorme; però, ho subito, diciamo, la frustrazione di non poter continuare ad insegnare nella scuola, perché era necessaria la laurea mentre io sono diplomato.
Questa è veramente una cosa che mi ha bruciato tantissimo e che mi brucia ancora oggi!
“Un giudizio per ogni ruolo che ha, una parola che la rappresenti, come fotografo, come fotoreporter e come insegnante?”
Come fotografo ho avuto molto successo, in un certo periodo, e poi, ho avuto diverse crisi anche, perché, quando hai successo, la gente è abituata a conoscerti in un certo modo, e tu non riesci più a cambiare, rischi di rifarti il verso, e questo non va bene. Io, invece, continuo a ricercare, continuo a sperimentare modi diversi di usare la fotografia…
Ad esempio, adesso sto facendo una serie su Savona, che è completamente diversa da tutto ciò che ho fatto finora; adesso pratico il “mosso intenzionale” mentre prima ho sempre cercato di fare immagini nitide.
Dal punto di vista, come fotografo, direi che la parola potrebbe essere ricerca continua.
Come fotoreporter, invece, voglio sempre viaggiare e come aggettivo direi curioso, perché un fotoreporter dev’essere curioso e deve amare il prossimo, altrimenti non c’è verso. Quindi come parola, direi viaggiare, viaggiare, per me, è la vita; se mi fermo, veramente, mi dispiace tanto. Come insegnante, a parte il rimpianto che dicevo prima, penso d’essere bravo, perché ho avuto molti allievi, che poi sono diventati anche professionisti, che ancora oggi, mi dicono che io ho fatto venire loro la passione per la fotografia e sono stato un esempio valido per loro, quindi questa, per me, è una grossa soddisfazione!
Laura Candelo
Maggiori informazioni, riguardo la sua biografia all’indirizzo: http://www.gibipeluffo.com/gibipeluffo/Curriculum_Vitae.html