Molière (1622- 1673) ovvero Jean Baptiste Poquelin, fu uomo di teatro a tutto tondo, autore, attore (nonostante un problema di leggera balbuzie), regista e, con scarso successo, anche impresario; viene definito il maggior autore comico-satirico di tutti i tempi, anche se alla comicità pervenne dopo qualche insuccesso nella recita delle tragedie.
Mettendo a frutto gli insegnamenti dei comici dell’Arte, egli capì che il segreto di catturare il pubblico consisteva nell’adattare la lingua del teatro ai luoghi della provincia francese che percorreva con la troupe, alternando la tragedia alla farsa ed usando in entrambe elementi visivi ad effetto, tipici degli improvvisatori.
Più tardi, raggiunto un certo benessere a causa della protezione della famiglia reale e in particolare del re Luigi XIV, che non gli venne a mancare per tutta la vita, il suo teatro esprimerà l’intimo più vero dell’autore, dell’uomo che conosce solo le regole della ragione e che sfida la società organizzata e le sue costrizioni, quella morale naturale che è il contrario della morale cristiana ed eroica: contro natura sono per lui il coraggio, il sacrificio, la rinuncia, la castità, il perdono. Molière è il vessillo di quello che un giorno si chiamerà lo spirito laico.
“Don Juan”, del 1665, è tratto da un successo italiano dei comici dell’arte, Il convitato di pietra. Un personaggio di gaudente raffinato dalla parola convincente, una figura diabolica che agisce per desiderio di vittoria su ogni divieto, parallela alla voglia di conquiste. E’ ateo e irride chi ha la fede, inganna le donne con promesse di matrimonio, avvilisce il misero, ruba al creditore, augura la morte al suo stesso padre, deluso dal comportamento di un figlio che nessuno vorrebbe aver messo al mondo.
Don Giovanni è capace di fingere ipocritamente sentimenti che gli sono sconosciuti, in quanto l’ipocrisia, secondo lui, è socialmente utile, serve a non far soffrire; per raggiungere i propri scopi non esita ad uccidere e ad istigare all’omicidio.
Eppure in quest’opera tarda di Molière si intravede una sorta di ambiguità o meglio di riscatto spirituale per la costante messa in scena del fraseggio tra il libertino e il pur debole e sottomesso servo Sganarello, che, anche se in maniera pavida e perdente, tenta sempre di riportarlo a comportamenti di umana lealtà. E lo stesso don Giovanni si piega a qualche moto di generosità, offrendo comunque un luigi d’oro al mendicante che si rifiuta di bestemmiare per ottenerlo. Non sfugge in questo pezzo un ulteriore tema caro all’autore, la descrizione (o la caricatura?) di archetipi esasperati della psicologia maschile e femminile messi a confronto.
Una parola merita la figura, divenuta poi assai celebre e ricorrente nella cultura, del convitato di pietra. Una antica leggenda europea narra di un giovane dissoluto che in un sentiero prende a calci il cranio di un morto e lo invita deridendolo a cena. Il morto si presenta davvero al banchetto, ma solo per ricambiare l’invito al giovane, che deve accettare e alla fine muore.
La scena della cena di don Giovanni fa pensare che il libertino stia consumando il suo pasto funebre; è proprio il tema del cibo a sancire la barriera fra i due mondi, cibo mortale e cibo celeste. L’epilogo ripete l’antica leggenda popolare nel motivo dell’invito a cena ricambiato da parte del messaggero dell’aldilà, e aggiunge lo scontro fra la morale (“Pentiti, cangia vita: è l’ultimo momento”) e il rifiuto della stessa con ostinata ribellione.
L’allestimento del Teatro della Corte, per la regia di Valerio Binasco, è quanto mai convincente ed attuale, così’ come la felice interpretazione di Gianluca Gobbi e Sergio Romano, validamente supportati da tutti gli attori dell’affiatata compagnia.Fino a domenica 27 gennaio.
Elisa Prato