“Venuti a conoscenza dell’ennesimo carico di armi transitante nei terminal del porto di Genova, abbiamo deciso di prendere la parola e rompere il silenzio. Non possiamo tollerare che armi, bombe e mezzi militari passino sulle banchine e sulle navi dove lavoriamo, tantomeno vogliamo collaborare a questi traffici, ben sapendo dove sono diretti (in Arabia Saudita, per esempio) e come saranno impiegati (la carneficina degli yemeniti, per esempio)”.
Lo ha dichiarato ieri su fb i responsabili del Collettivo autonomo lavoratori portuali (Calp).
“Il sistema portuale – hanno aggiunto – è un perno della logistica e le materie prime e semilavorati in transito sono spesso sporchi, per così dire, di sangue provenendo da paesi ricchi di risorse naturali ma estratte e lavorate in condizioni di schiavitù che spesso portano alla malattia se non alla morte dei lavoratori.
Tanti fuggono per arrivare in paesi dove sicuramente si aspettano condizioni migliori di vita, ma incontrano i porti chiusi di meschini governanti italiani ed europei che li vorrebbero schiavi, colonizzati ma “a casa loro”. Forza lavoro a basso costo qui come altrove.
Dopo che le aziende italiane hanno esportato (e continuano) quelle armi che alimentano le guerre da cui uomini e donne scappano, considerare quest’esodo di massa “un’invasione” non suona solo razzista e ipocrita, ma anche grottesco.
Noi non vogliamo che nel porto in cui lavoriamo transitino strumenti di morte per altre persone, per altri lavoratori.
Ognuno deve assumersi le sue responsabilità.
Lo striscione calato dalla sopraelevata questo weekend, di fronte al palazzo dell’Autorità Portuale di Sistema è una prima azione in tal senso.
Basta traffici di guerra nel porto genovese”.