Riscontra sempre fascino la disciplina araldico-genealogica, nella sua capacità di investigare, e magari confermare, una nostra nobile discendenza.
Ed anche se la Costituzione (art.3) derubrica la “nobiltà”, il blasone familiare resta una componente sociale particolarmente attraente per l’essere umano, trovando peraltro vasta narrazione in letteratura ed anche disputa (per esempio, nel Convivio dantesco).
Esso diviene motivo di ambizione e vanto, esprimendo un valore nudo e crudo, anche non necessariamente combinato con una equivalente condizione economica (la cosiddetta “nobiltà decaduta”).
Non a caso, in nome di questa attesa gloriosa, giungono e-mail, da Società esperte in Araldica, per mezzo delle quali l’immaginazione umana può dare sfogo all’ambizione e scandagliare la possibilità di una testimonianza pergamenata della propria genealogia.
Vi è gloria nel recuperare il proprio stemma di famiglia ed affiggerlo in bella vista nel condominio, sulla porta di casa (non sempre il nobile conserva l’originario palazzo). Gloria nell’esporre l’acronimo N.H. (nobiluomo) accanto al proprio nome sul citofono e sulla cassetta della posta.
Tutto ciò persiste, malgrado vi sia sempre la possibilità di scoprire di appartenere ad una casata, si-ma non principesca, con uno stemma araldico identificato, in alternativa a leoni ed aquile, da umili animali da cortile.
Sia come sia, premettendo che la gran parte degli individui, per dato statistico, ha una sacro-santa origine popolare, è buona idea che la nobile nascita si possa anche dimostrare con il comportamento, piuttosto che con l’elencazione di titoli e stemmi.
In via conclusiva, a prescindere dal contenuto costituzionale, la nobiltà costituisce una rete seduttiva sociale in cui l’essere umano tende mediamente a restare impigliato.
Al punto da poter considerare l’acquisizione di un titolo nobiliare, anche in un periodo di crisi economica, più che una spesa, un vero e proprio investimento.
Massimiliano Barbin Bertorelli