E’ esploso di nuovo sul grande schermo, in tutta la sua potenza morale, il raffinato regista Francois Ozon (Parigi, 1967), con una pellicola di granitica deflagrazione emotiva che racconta testimoniando in merito all’argomento più scomodo: il peso dell’abuso silente. Perché il Trauma, dall’iraniano trayma/trafittura, se non raccontato, genera inesorabile malattia. E della straziante uscita dal silenzio narra questo film, il cui soggetto e sceneggiatura sono del medesimo Ozon, che riferisce fatti realmente accaduti.
Sebbene gli abusi descritti si siano consumati in ambito ecclesiale presso un campo scout nell’area di Lione tra la metà degli anni ’80 e quella degli anni ’90, “Grazie a Dio”(Grace à Dieu), Orso d’Argento al Festival di Berlino 2019, non costituisce una pellicola contro la Chiesa, ma un’acuta riflessione analitica di modelli educativi che devono essere scardinati con la massima urgenza. Interessante che un film affronti il tema dell’abuso attraverso il mondo maschile.
D’altronde Ozon, di vedute aperte e particolarmente legato ai movimenti LGBT, non poteva che descrivere uomini sessualmente abusati durante l’infanzia ed adolescenza con tagliente sensibilità.
Così si aprono ai nostri occhi alcuni personaggi maschili adulti che si stagliano in profonda dignità contro un passato contraddistinto dalla violenza sessuale spesso sminuita dagli stessi genitori. Due delle compagne dei protagonisti ugualmente rivelano sommessamente d’essere state stuprate da bambine non nell’ambito della Parrocchia, bensì della famiglia medesima. Un dolore reale sottende tutto il film, che è uno di quelli da cui si emerge migliori proprio in virtù della schiettezza con cui viene comunicata una tematica così delicata.
L’azione principale prende le mosse da Alexandre, il più equilibrato dei personaggi narrati. Tra tutti Alexandre, interpretato da un solido Melvie Poupaud, è il più religioso e colui che effettivamente si è riscattato attraverso la costruzione di una solida famiglia con ben 5 figli che è a conoscenza del suo passato doloroso e lo sostiene.
A seguito di un iter ecclesiale che lo condurrà prima ad essere ascoltato dalla psicologa della Chiesa Règine Marie fino al medesimo monsignor Barbarin, non trovando giustizia, presenterà formale denuncia presso le Istituzioni, sebbene il reato contestato risulti ormai prescritto.
Attraverso questa formale denuncia, il Capitano Courteau risalirà ad altri uomini più giovani, precedentemente vittime, per i quali il reato non è ancora caduto in prescrizione, i quali accetteranno di sporgere denuncia. Da qui prende forma un’azione mediatica notevole e la costituzione di un’associazione “La parole Liberée”, proprio in virtù dell’opportunità da parte delle vittime di potersi porre finalmente a nudo e raccontare nel dettaglio gli abusi subiti senza più essere costretti al silenzio a causa del senso di vergogna che prova ciascuna vittima di qualunque violenza. “Il silenzio fonte di un dolore profondo che non si arresta mai”, asserisce uno dei personaggi.
Tra di loro si crea sinergica amicizia, sebbene forse intuitivamente non destinata a durare per sempre. Altro personaggio cardine al processo di liberazione dal silenzio dell’abuso è rappresentato da François, impersonato da un carismatico Denis Menochet che, dell’associazione farà una ragione di vita.
Tuttavia allo spettatore più sensibile entrerà senz’altro nel cuore Emmanuel, interpretato da un intenso Swann Arlaud, già Premio César come miglior attore. Emmanuel è rimasto profondamente danneggiato dagli abusi sessuali da parte di Padre Bernard Preynat, tanto da essere esposto a repentini collassi nervosi, ad essere impigliato in una relazione tossica con una donna anch’essa segnata dalla violenza e, soprattutto, tanto da presentare una lieve malformazione genitale per le attenzioni sessuali ricevute appunto da parte del prete in questione durante l’infanzia.
Sembra proprio di sentirsi nella pelle e nell’anima ferite di Emmanuel e di portarne per un tratto di strada il peso della disperazione che la violazione della propria persona scaturisce. Dal punto di vista della regia i primi piani su Swann Arlaud assolvono ad una grande forza narrativa. D’altro canto Swann si immedesima talmente da suscitare nello spettatore amare lacrime di realtà.
E’ interessante come nel film si faccia costantemente riferimento alla posizione di severa condanna della pedofilia da parte di Papa Francesco. Gli uomini, le cui vicende il film testimonia hanno ricevuto di fatto una Giustizia tardiva, senz’altro non vana, in quanto pioniera di futuri percorsi da seguire da parte della Chiesa. Padre Bernard Preynat soltanto nel luglio del 2019 è stato ridotto allo stato laicale.
Inebrianti le luci fredde che caratterizzano la regia, i primissimi piani, buona la fotografia di Manuel Dacosse. Ringraziamo i fratelli Eric e Nicolas Altmayer per aver prodotto ancora una volta una pellicola di incisivo impatto sociale, di cui c’era estrema necessità.
Il film si chiude con una domanda scomoda come l’argomento trattato. Uno dei figli di Alexandre chiede al padre se creda ancora in Dio. Alla domanda non segue risposta. Noi ci crediamo fermamente, ma certo che qualunque forma di abuso deve essere radicalmente estirpata dalle organizzazioni ecclesiali ed anche dai modelli familiari attuali che ancora vi inciampano.
Romina De Simone