Pat Metheny – come lui alla chitarra non c’è nessuno – si presenta sul palco del Teatro Carlo Felice tra grida entusiaste e applausi scroscianti. Appare quasi intimidito e il suo sguardo si cela sotto la folta chioma color del bronzo, che mantiene in ombra gli occhi. Jeans scuri, felpa leggera nera come le scarpe gommate di bianco, prende posto sullo sgabello tondo per musicisti: la gamba destra tesa in avanti, l’altra piegata, e imbraccia la chitarra.
Alle sue spalle c’è Andrea Battistoni, il maestro sempre più emergente che dirige l’Orchestra del Teatro Carlo Felice in questo concerto eccezionale. Il contrabbassista polacco Darek Oleszkiewicz e il giovane batterista del Connecticut, Jonathan Barber, accompagnano Metheny, costituendo con lui il tipico trio jazz.
Il titolo dello spettacolo, che dura un’ora e mezza, è Missouri Skies and More. Proprio in Missouri, a Lee’s Summit, a una ventina di miglia da Kansas City, Metheny è nato nel 1954. Il riferimento ai cieli dello stato americano era già in una precedente raccolta, Beyond the Missouri Sky, pubblicata nel 1997, che qui viene ripresa nella scelta di alcuni brani.
Cala il silenzio, appena l’artista esegue i primi accordi. Quando l’atmosfera si riscalda, suona in piedi Our Final Hour (Not To Be Forgotten), da uno dei suoi album più riusciti, Secret Story, uscito nel 1992.
Metheny, nato in una famiglia di musicisti, ha masticato musica sin da piccolo. Il primo strumento che ha studiato è stata la tromba, ma a 12 anni ha iniziato a prendere confidenza con la chitarra elettrica di cui, da allora alla ricerca di sempre nuove sonorità, è diventato uno dei più grandi virtuosi. Per questo, nel 2013, è stato inserito nella categoria chitarristi jazz della Hall of Fame, insieme ai grandi Charlie Christian, Django Reinhardt e Wes Montgomery.
Dopo Rain River, è Always and Forever (entrambe ancora da Secret Story) a catturare gli animi del pubblico: in questo brano strepitoso, super classico per i fan, il ritmo si fa davvero incalzante.
Metheny alterna le chitarre, che gli vengono portate come in un rituale, a ogni cambio di brano. Non solleva quasi mai la testa e pizzica le corde degli strumenti a occhi chiusi, con un sorriso interiore costante. Si vede che è concentrato e, allo stesso tempo, felice. D’altra parte, se così non fosse, non si spiegherebbe il ritmo che riesce a tenere dalla metà degli anni ’70 a oggi, in quanto risulta costantemente in tour, con un centinaio di spettacoli all’anno.
È la volta, poi, di due pezzi scritti non da lui. Il primo è Preciuos Jewel di Roy Acuff, dalle cadenze più tranquille, in parte quasi un assolo di chitarra, accompagnato da batteria e contrabbasso; il secondo, A Map of the World, è di Jimmy Webb ed esalta la performance del batterista, poi l’intervento della chitarra e, quindi, dell’orchestra, tutto in un magnifico saliendo, che conduce, infine, a una calma discesa verso il finale.
Last Train Home (da Still Life Talking, 1990) è un brano corto e raffinato, mentre in Farmer’s Trust il ritmo è inizialmente ben sottolineato dal contrabbasso, poi da un assolo di chitarra – visualizzo bellissime cavalcate nelle praterie sotto cieli infiniti –, infine di nuovo dal contrabbasso.
Il programma prosegue senza intervalli con The Calling, Tell Her You Saw Me (da Secret Story) e Interval Waltz, con un bel dialogo / alternanza tra assoli di chitarra e coralità dell’orchestra.
Love May Take a While è il nuovo brano tratto dall’album From This Place, che uscirà il 21 febbraio 2020. Metheny lo suona con grande energia, stando in piedi, e si guadagna molti applausi, persino a scena aperta. Di questa raccolta a lungo attesa, l’artista dice che per lui segna “una sorta di culmine musicale”. L’assaggio che ci viene offerto lascia ben sperare.
La serata si conclude con gli ultimi tre dei 14 pezzi in locandina. Le note pressanti di Song for Bilbao lasciano spazio a Living is Easy with Eyes Closed / Make Peace, quasi un brano-manifesto di un modo di essere e di suonare, e a First Song, firmato da Charlie Haden, un assolo strepitoso che conclude il concerto.
Non c’è modo di fermare questa leggenda vivente un po’ più a lungo sul palco. Schivo com’è, si inchina, allarga il sorriso e sparisce velocemente dietro le quinte, nonostante le ovazioni fragorose del pubblico. Metheny è uno di quei personaggi che passano tra noi leggiadri, ma lasciano un segno: il suo, in questa serata, sta nella fusione perfetta tra jazz e stile sinfonico, con un’Orchestra e il Maestro che l’ha diretta perfettamente all’altezza di questa mitica e fugace presenza.
Linda Kaiser