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Da Tortora a Carminati: in Italia Giustizia ingiusta, da 37 anni non è cambiata

Il giornalista genovese Enzo Tortora, conduttore di Portobello, vittima di malagiustizia (foto d'archivio)

“Apro gli occhi. Oggi ci sono gli esami per tanti ragazzi. Che emozione. Penso ai miei di esami quel 17 giugno 1983. Anche di quella emozione mi hanno privato. Per buttarmi a 13 anni all’inferno”.

Gaia Tortora, figlia del giornalista genovese Enzo, oggi ha ricordato così il giorno dell’ingiusto arresto del padre in una lettera all’Huffington Post.

Del tutto innocente, ma messo alla gogna mediatica e mostrato al pubblico con le manette ai polsi. Accusato ingiustamente di associazione camorristica e traffico di droga.

Rinchiuso in carcere per sette mesi, poi ai domiciliari. La carriera e gli affetti distrutti. Un brav’uomo, demolito completamente dalla cosiddetta “malagiustizia”.

La sua innocenza fu dimostrata e riconosciuta soltanto il 15 settembre 1986. Morì poco più di un anno dopo.

Il popolare giornalista genovese, persona seria, onesta, perbene e altruista, tra le altre cose disse: “Come me ce ne sono molti”.

“Avevo 13 anni – ha ricordato Gaia Tortora – oggi ne ho 51, le cicatrici le porto ancora dentro.

Trentasette anni sono passati, ma nulla è cambiato.

Apro velocemente i giornali e le parole di Massimo Carminati mi colpiscono: ‘Io trattato come il diavolo’.

Mi chiedo… ma allora cosa abbiamo raccontato? Quanto abbiamo sperato che davvero quel ‘mafioso’ fosse la teoria processuale vincente?

Ma noi chi? Beh, noi informazione”.

Gaia Tortora ha descritto poi “quei brevi istanti del momento in cui Carminati lascia il carcere. Pochi passi. Lo sguardo fuori dal cancello dove lo attendevano i cronisti.

Pochi attimi di indecisione, quasi a voler trovare un’uscita secondaria.

Ancora un flash, mio padre venne costretto e, lo ripeto con forza, costretto, a sfilare ammanettato davanti a fotografi e Tv.

Appunto, eravamo già all’inferno.

Alcuni giornalisti iniziarono a scrivere senza sapere nulla, senza sapere i fatti.

Al limite solo quello che gli imbeccava la procura. In fondo si ammanetta qualcuno nel cuore della notte se ha fatto qualcosa.

Sono passati trentasette anni da quel 17 giugno e questo Paese non è cambiato un granché.

E mi fa male dirlo perché io combatto, ho combattuto e ci ho creduto.

È diventato il Paese dei derby (campionato inaugurato proprio con la vicenda di mio padre, di qua gli innocentisti, di là i colpevolisti) delle teorie, di alcuni giornalisti schierati per compiacere il consenso legato al proprio target.

Quotidiano magari.

Ho sentito, in questi 30 anni, politici garantire una riforma della giustizia che ancora non si è vista. Ma che per una campagna elettorale va bene, fa sempre il suo effetto.

L’Italia culla del diritto è stata troppe volte soffocata sul nascere.

Mio padre, si sa, è stato ucciso da certa magistratura e da certa stampa”.