La comunicazione, in specie intesa nel senso di mettere in comune i pensieri, rappresenta una fase sociale ordinaria e quotidiana (salvo le restrizioni momentaneamente suggerite per affrontare la pandemia in corso).
Pur tuttavia, il dialogo, quale espressione formatrice di pensiero critico, è strumento tutt’altro che popolare nelle sue modalità, spesso inadeguato nella sua pratica.
A questo proposito, è possibile non sapere sempre tradurre al meglio un proprio pensiero. E che non si riesca a comporre la risolutiva combinazione tra tesi, antitesi e sintesi : vuoi per disabitudine al confronto, per rudimentale eloquio, per disinteresse; vuoi (forse anche) perché il dialogo, nella sua pretesa di sincerità, disvela debolezze e mancanze.
Fatto sta che l’emissione di parole approssimate ingenera una vastità di equivoci e fraintendimenti. Anche per questo alcuni preferiscono opporre un dignitoso riserbo, trincerarsi nel silenzio per evitare contrasti o dissapori.
Di certo, trattare un argomento in maniera comprensibile è materia complessa, non a caso si sosteneva, traducendo dal latino, conosci la materia, le parole seguiranno.
Tuttavia, ciò non é sufficiente, non protegge da esternazioni improvvisate e da certa malriposta presunzione, fino a giungere alla dissacrante considerazione di J.S. Lec: “persino nel suo silenzio c’erano errori linguistici”.
E’ noto che il linguaggio sconti infatti una discontinuità interpretativa, una distanza originaria tra interlocutori non sempre facilmente colmabile.
E ciò manifesta altresì, a latere della variabile presente della reciproca malfidenza, una chiave di lettura alterata dall’invasività del pregiudizio. In tal senso, scomodo la considerazione di Derrida per cui “il dialogo non è mai né illimitato né neutro, tanto negli esiti quanto nei presupposti” .
Sia come sia, dialogare è anche un’azione verbale arbitraria. Basandoci su tale assunto, ne risulterebbe tendenzialmente ridimensionata, in quanto rappresentativa di una volontà unilaterale, ogni finalità diretta ad una fattuale condivisione.
In via conclusiva, per evitare una vana autoreferenzialità, è cosa buona collocarci nell’ ambizioso traguardo di definire, prima di tutto, la dimensione delle proprie riflessioni: visto che, in tale latitanza, è improbabile ottenere, tantomeno pretendere, la comprensione altrui. Massimiliano Barbin Bertorelli