A Compagna vi parla di Gilberto Govi, Rosetta Mazzi
Non intendo, nell’accingermi a dire di Gilberto Govi e della sua compagnia dialettale genovese, che rievocare ricordi di ore piacevolmente vissute, gradevolissimi godimenti, momenti di sano entusiasmo e di sincera ammirazione, ascoltando, rannicchiato nella mia poltrona, il grande attore, che sulla scena sembra inspirato da un soffio divino, che gestisce con tutta naturalezza, che parla il rude linguaggio della verità e che nelle sue multiformi incarnazioni non ricorre all’artefatto, al caricato, al convenzionale.
Gilberto Govi, come già Edoardo Ferravilla, fulgida gloria del teatro dialettale milanese, ha saputo elevarsi al disopra di tutti i suoi imitatori, riuscendo a trionfare e ad affermarsi in modo indiscutibile, meritando la gloria conquistata, che nessuno ormai potrà contrastargli. Egli è l’attore che crea la macchietta, che vive il suo dramma e lo recita tale quale esso è senza falsarne i coloriti e le tinte, identificando a perfezione il suo personaggio.
Chi scrive è un genovese riso raeo, e può dare in merito un giudizio preciso: del resto chiunque, vagando per le vie della città, sulle calate del Porto, nei popolosi sestieri, s’imbatterà certamente in certi tipi e figure, che il nostro attore ha profondamente studiato e portato sulla scena.
Il suo grande amore per l’arte si è manifestato in lui fin da ragazzo, quando, scolaretto, veniva incaricato dal maestro della recita di una poesia o dello studio di una particina in qualche commediola d’occasione per la distribuzione dei premi. Il successo dell’artista in erba coronava sempre il debutto e ravvivava la vocazione: il giovinetto si sentiva allettato dall’orpello delle scene e senza trascurare gli studi, specialmente quelli seguiti all’Accademia di Belle Arti, dove apprese a tracciare mirabili macchiette, cominciò a frequentare un circolo giovanile cattolico, che aveva una sezione di filodrammatici, tutti maschi, i quali, sotto la direzione del Curato di San Rocco, Don Gazzo, recitavano, alla domenica, commediole per famiglie.
Il primo passo era fatto; ma il piccolo teatrino offriva troppo scarse risorse perché si potesse realizzare il grande sogno di Gilberto. Fortuna volle che egli s’incontrasse un giorno con un certo Gandini, che faceva parte di una compagnia di filodrammatici con sede al Teatro Andrea Podestà, in Salita Mascherona. Conoscendo le attitudini del Govi, il Gandini gli propose una particina in una commedia. Naturalmente l’invito fu accettato con entusiasmo e il Govi sostenne il suo ruolo con tanta efficacia, che ebbe una dimostrazione simpaticissima.
Dal Teatro Andrea Podestà, Gilberto Govi passò a un teatrino di Bolzaneto, dove i suoi trionfi si moltiplicarono, come si moltiplicava il suo fervore per l’arte.
Alle Officine Elettriche Genovesi, dove ottenne un impiego, Gilberto Govi conobbe il signor Costabel, un appassionato del teatro e socio della Accademia Filodrammatica Italiana, che eserciva il Nazionale.
Il Govi si diede a frequentare questo teatro seguendone le recite con crescente interesse, sempre accompagnato dall’amico Costabel, il quale nutriva speranza di poterlo fare ammettere tra i filodrammatici. Infatti, scioltosi il Circolo Filodrammatico Genovese, di cui il Govi fece parte, il giovane fu ammesso all’Accademia. Il repertorio era limitato e molto antiquato; le produzioni avevano tanto di barba.
Il Govi comprese che occorreva una riforma; occorreva insomma mettere sulla scena qualche cosa di nuovo, di interessante, di effervescente, e, d’accordo con alcuni giovani colleghi, tentò l’esperimento che riuscì pienamente a consolidare le sorti del Nazionale.
Gilberto Govi attore brillantissimo conquistò il pubblico, che accorreva in folla alle sue recite e lo ricolmava di calorosi applausi. Intanto strinse amicizia col cav. Davide Castelli, un vecchio filodrammatico che aveva fatto le sue prime armi col compianto Nicolò Bacigalupo, recitando le sue immortali commedie: I manezzi pe majâ, ûnn-a figgia e Piggiâse o mâ do Rosso o cartâ.
Il Castelli convinse il Govi e altri amici che il Teatro Dialettale Genovese, come gli altri del genere, avrebbe potuto avere un radioso avvenire; che il repertorio era certamente poverissimo, ma mettendo in valore il teatro dialettale, gli autori di nuove commedie non sarebbero mancati. E durante l’estate del 1914 il Castelli, raccolta una compagnia di entusiasti, fece un giro in Liguria recitando per beneficenza.
A Sestri Ponente, a Sampierdarena, a Savona, a Chiavari, a Spezia, ovunque, la compagnia riportò successi vibrantissimi e la stampa tutta ebbe lusinghiere parole di incoraggiamento e di augurio.
L’esperimento riuscì superiore alle speranze dei volonterosi comici, i quali ebbero pure i migliori complimenti dai veterani dell’Accademia. Gilberto Govi, che aveva sempre sostenuto parti di attore brillante, nell’assenza del cav. Castelli, assunse egli stesso la direzione artistica del teatro dialettale, sostituendolo anche nei ruoli di caratterista, dove si trovò a bell’agio, riuscendo artefice inimitabile.
Chi non ricorda Gilberto Govi nelle deliziose macchiette di Sciö Steva nei I manezzi pe majâ, ûnn-a figgia, di Sciö Pippo Manezziin Piggiâse o mâ do Rosso o cartâ, di Agostin Leituga in Ciù a puia che o mâ, di Gioemo o barcaieû in Rûzze vegia, di Nicolla in O giorno da primma comenion, di Beppin Caoteio nella farsa In Pretûa, di Faustin Caviggia in Quello bonn’anima, di Sciö Parodi inSi chiude, di Bernardo in Ciù Bernardo de coscì…, in Trotto d’Aze, in A Mexinn-a, in Barudda e Pipìa, in Scheuggio Campann-a, ecc., ecc. E chi non ricorda la sua maschera mobilissima, il suo occhio espressivo, il suo gesto che ha spesso valore di un poema? In ogni ruolo egli appare l’artista studiosissimo e geniale, che ha vissuto i suoi tipi, i suoi personaggi, li ha creati vivi e veri imprimendovi l’impronta della sua genialità.
Orbene la Dialettale Genovese, nata in seno all’Accademia Filodrammatica Italiana, non poteva più contenersi ad un ambiente così limitato dagli statuti come il Nazionale, per poter esplicare la sua attività e nel 1916 iniziò al Paganini la sua vita autonoma con alcune recite che richiamarono gran folla e segnarono un grande trionfo per Gilberto Govi e per i suoi comici ben affiatati e sicuri.
Con forza di volontà prodigiosa tutte le difficoltà, e non son poche, per una compagnia senza locali, senza scritture, senza materiali, furono superate: essa trovò incoraggiamenti e appoggi e un benemerito mecenate nel comm. Achille Chiarella, il quale offerse teatri e locali alla nuova compagnia, che poté in tal modo assicurare il suo avvenire.
D’altronde Gilberto Govi, circondato di così ottimi elementi, poteva ormai tutto osare; poteva affrontare serenamente il giudizio di tutti i pubblici e non soltanto di quelli di Liguria.
Infatti colla signora Rina Gaioni-Govi, un’artista pregevolissima, creatrice delle macchiette popolane di Luiginn-a, colla Mazzi, coi due Parodi, col Nava, con l’Albertini, col Musso, coll’Ortolani, col Buttin, col Tagliavacche, con il Del Gamba, colla Levi, con la Colombo e con altri attori e attrici tutti animati da giovanile entusiasmo, Gilberto Govi ha tentato 1’esperimento al Teatro Carignano di Torino, dove ha riportato un magnifico successo riuscendo a divertire e a far ridere fino all’inverosimile la folla, che mostrò di comprendere le astrusità dell’accidentato nostro dialetto, reso così espressivo e così efficace dal gesto e dall’atteggiamento del viso del nostro attore.
Lo stesso grande successo la compagnia ha riportato a Milano nel dicembre del ’23 meritando elogi vivissimi dai critici dei maggiori quotidiani della Metropoli Lombarda. Non basta: anche nell’America Latina, in una recente tournée, Gilberto Govi e i suoi comici seppero tenere ben alto il nome di Genova, passando di trionfo in trionfo.
Al principio del triennio la compagnia è stata riorganizzata ed oggi comprende nelle sue file, oltre il comm. Gilberto Govi e la gentile sua compagna signora Rina Gaioni-Govi, le signore Jole Gardini, acquisto pregevolissimo, Gina Ducci, Amelia Fancelli, Lena Gando, Carlotta Pittaluga, Maria Bruzzone, e i signori Piero Maffei, Luigi e Sandro Parodi, Oscar Gardini, attore e autore di graziose commedie, Mario Gando, Enzo Del Gamba, Luigi Dameri, Federico Pittaluga e Filippo Tagliavacche, che coll’infaticabile suggeritore Oreste Tani, formano un complesso veramente ottimo e che dà affidamento del più radioso avvenire.
Il 19 del corrente maggio, dopo alcune fortunatissime recite al Paganini, la compagnia così ricomposta debuttò con la commedia:Quello bonn’anima, al Carignano di Torino, rinnovando il successo, già altra volta riportato in quel Teatro. Parlando di Gilberto Govi il critico della Gazzetta del Popolo si espresse: «Ho sempre creduto che un dialetto astruso e duro, dalle cadenze grosse, come il genovese, non possa avere vita sulla scena. Gilberto Govi, ieri sera, m’ha dimostrato il contrario.
«Attore vivacissimo, direi sin troppo vivace (egli porta e mantiene la sua recitazione a un diapason quasi sempre al disopra del naturale), il Govi ha fatto dell’opaco dialetto genovese una lingua lucida e squillante, dalle fitte sfaccettature luminose, ricca, duttile, nella quale senti persino, qua e là, l’ombra dell’interiezione lombarda e il ricordo della cantilena veneziana. Ma chi fu che sentendo il Govi parlò di Benini e di Ferravilla?
«Agile, secco, tutto nervi, egli scatta come una molla, e la sua voce sembra appunto alle volte il sibilo metallico d’un ordigno. Più fantoccio che persona – almeno ieri sera –, più caricatura che uomo, il Govi mi ricordò, all’infuori delle cadenze dialettali suaccennate, il Musco migliore e il Petrolini dei «Salamini» (vedi il trucco della maschera, gli occhi «clowneschi», il modo di camminare, la risata meccanica).
«Queste le prime impressioni, che non vogliono essere un giudizio, non bastando una recita e definire un attore. E quale attore!»
E più sotto: «L’arte del protagonista mise tanto sale e tanta indiavolata vivezza entro il gioco delle battute, che il pubblico – da un palchetto di Corte assisteva allo spettacolo S. A. R. il Principe di Piemonte – scattò più volte in applausi nutriti, chiamando e richiamando, con l’autore, gli interpreti alla ribalta. Degni di nota, al fianco di Gilberto Govi, sono la signora Gaioni-Govi, la Fancelli e il Dameri.»
Commentando, a sua volta, la commedia di Gardini: Ciù Bernardo de coscì, il critico della «Stampa» scrisse:
«S’intende che tutto ciò ha preso vita dal Govi, il quale ha rappresentato una macchietta irresistibilmente buffa. Caricatura, caricatura assai spinta: in essa la deformazione umana è violenta, e la verità ironica acutizzata in uno stile grottesco, che è la peculiare caratteristica di questo attore genovese e di per sé suscita onde di buon umore.
Il tipo c’era senza dubbio, ma se vogliamo un po’ convenzionale, tenuto in una linea arguta e consequente, esso ha toccato non di rado il generico. Non è quindi nel carattere e nella finezza dell’osservazione (se pure anche questa pregevole) non è nei toni umani (se pure umoristicamente intesi) che abbiamo trovato ieri sera l’innegabile e vivacissima forza comica del Govi; ma piuttosto in una cotal sua bizzarria di atteggiamenti ed espressioni, in un suo fantastico e parodistico modo di essere, che si rinnova magari monocorde, ma sottolinea ogni battuta e stato d’animo e gioco scenico con una inspiegabile e vivacissima potenza burlesca cui non ci si può sottrarre.
Dal principio alla fine della serata il pubblico fu scosso da una giocondità irrefrenabile, e le risate succedevano alle risate, mentre l’attore imperturbabile e con sempre maggiore evidenza incideva la sua personalità nella farsa, accumulando spassose invenzioni, e ameni «soggetti» e trovate maliziosissime.
«Prima di questi tre atti era stata rappresentata un’altra novità: Do Quarantoetto di G. Orengo. Brevi scene che, in un piccolo ambiente quarantottesco e prendendo lo spunto dall’Inno di Mameli, danno modo al Govi di delineare rapidamente una graziosa macchietta di sordo; comicità lieve e leggera. Questo atto, come i tre di Ciù Bernardo de coscì…, furono vivamente applauditi.»
Come si vede, questa compagnia, entrata nelle simpatie del pubblico, potrà ormai affrontare nuove platee, presentando un repertorio arricchito di nuovi lavori, in parte sbocciati in seguito al bando di concorso lanciato dal Govi, in parte prossimi a veder la luce, e marciare intrepida verso più alti destini.
Non posso chiudere queste affrettate note passando sotto silenzio le benemerenze acquistate da Gilberto Govi, creato Commendatore della Corona d’Italia, e dalla sua Compagnia.
Durante la guerra la Dialettale si è prodigata in opere di beneficenza, recitando in teatri, ospedali, sanatorii, per venire in soccorso dei vari Comitati e per divertire i poveri malati o mutilati di guerra; e continua tuttavia a prodigarsi per sussidiare istituzioni di educazione, di assistenza, di carità, profondendo a tale scopo somme ragguardevoli. E di ciò Gilberto Govi va più orgoglioso che dei conquistati allori.
La giornata è grigia, il temporale sta sospeso nell’aria, cullandosi mollemente su certi nuvoloni da vignetta di Diluvio Universale: ogni tanto russa tra i monti, brontola, ribrontola, dischiudendo e riabbassando tosto, velocemente, le ciglia pesanti: i lampi!
Recarsi ad intervistare con questo tempo un’attrice – e un’attrice che viene tanto di lontano, di là dall’Oceano, con il suo bravo, grosso fardello di gloria – è cosa pericolosa.
Ma io confido nella cordialità schietta della “scià Rusétta” – come continua a farsi chiamare dagli amici, senza boria alcuna – ed eroicamente mi accingo alla traversata di… S. Benigno. Diamine: l’America non può averla cambiata, dico per incoraggiarmi, essa non è di quelle che mutano con il favore del vento.
Giungo in via Giambattista Monti e incomincia a piovere: certi goccioloni che sembrano ciambelle senza buco: meno male che la casa della Signora Mazzi è la prima a sinistra, appena svoltato l’angolo.
E su, su… su; per forza: una donna buona come lei che viene… dall’altro mondo, non può stare ormai che… in paradiso.
Ho in tasca, pronto a portata di mano, il mio bravo biglietto da visita; ho anche il taccuino per le note, la matita: tutto.
Suono: e mentre alla donna che mi viene ad aprire sto per rifilare il mio biglietto –, ecco che spunta, curiosando, il caro buon viso della Ritornata: mi riconosce tosto, e mi viene incontro, franca ed entusiasta, felice di rivedermi.
“O, ben, che piacere!” mi dice.
“Sono qui per due indiscrezioni” getto le parole in fretta perché mi pesano sul cuore. Ma Rosetta Mazzi non è di quelle che si danno arie stanche ed annoiate e superiori: capisce che si tratta di un’intervista ma ne è contenta (come tutti) e me lo dimostra (come pochi).
“Con piacere, scia s’accommode!” e m’infila nel suo salottino, salottino semplice e chiaro: come lei. Si siede vicino a me e aspetta l’interrogatorio. Io non so che domandarle: avrei tante cose da chiederle che non riesco ad azzeccare la prima richiesta. Comincio con un banalissimo; “dunque…” nella fiducia che essa, con la sua consueta esuberanza, mi parlerà di tante cose senza che io abbia ad infiorare il discorso d’infiniti punti esclamativi ed interrogativi tra una pausa e l’altra.
“Dunque, dunque… e sci, sono contenta: abbiamo avuto una accoglienza veramente magnifica. Brava gente in America, gente alla mano con il cuore franco: noi abbiamo fatto del nostro meglio per dimostrar loro la nostra riconoscenza e per tener alto il nome di Zena”.
“Mi racconti lei, tutto” prego, poiché essa ha messo punto fermo. Ma Rosetta Mazzi è stanca; la sua voce tanto sonora è esile come se un velo l’avvolgesse e ravvolgesse; penso che abbia preso del freddo durante la traversata e le chiedo notizie della sua salute.
“O, non c’è male – dice con l’incuranza consueta che ella ha di sé – ma sono tanto affaticata, sapesse che cosa vuol dire dover recitare, dover parlare forte… con la voce in cantina! È’ uno sforzo disperato della volontà, uno sforzo che abbatte, prostra, esaurisce: sentisse la mia testa!”.
Lo intuisco e sto per levare le tende ma Rosetta Mazzi mi trattiene: “Mai ciù: s’immagini, ascolti: ecco qua, ciò l’interesserà più del mio male di testa e della mia afonia, afonia che a mio vanto, sono sempre riuscita a nascondere al mio pubblico. Che cosa avrebbero detto, laggiù, di un’attrice sfiatata? quindi: forza Rosetta! ma poi, finito lo spettacolo, movevo la bocca come una muta…
Ah! ma che festa ci hanno fatto! (si rinfranca a questo ricordo, tanto da dimenticare la sua emicrania e la sua raucedine) s’immagini che abbiamo conquistata a pieni voti la tanto difficile “Cassuela!”
E poiché io la guardo, evidentemente con gli occhi che hanno coloro che non capiscono nulla, mi spiega: “I teatri dell’Uruguay hanno come una grandissima seconda galleria, dove non possono accedere che le donne (e le donne, si sa, sono quelle che più arricciano il naso e si mostrano difficili); quella è la “Cassuela”.
“Ritornerà in America, dunque?” (com’è utile questo avverbio nelle interviste!)
“Ah, sì, certo: e spero presto; nel 1931: ma seguiremo un itinerario diverso: cominceremo con il Brasile, poi faremo l’Uruguay e da ultimo l’Argentina”.
Rammento, improvvisamente, una fotografia vista qualche tempo fa su “Il Lavoro”, che rappresentava la nostra “Scià Rusetta” tra Orfilia Rico, la grande attrice argentina e Josephine Baker, la ballerina hawaiana che tanto entusiasmò i parigini: chiedo notizie di queste due donne illustri alla signora Mazzi.
“Orfilia Rico – ricorda commovendosi – io l’ho conosciuta nel 1926 e fu essa, benedetta, che mi incitò a fare da me ed a mettere su compagnia. In gratitudine abbiamo dato, al S. Martino, una recita per lei, per lei che, paralizzata, vive (ma ora molto ansiosamente si aspetta che la scienza operi su lei il miracolo già operato su altri, miracolo che potrà farle riacquistare il movimento: la vita).
A noi per questa recita di bene, si unì per una delle sue famose mimiche hawaiane la Baker: in un palco, tronco che di vivo conservava soltanto lo splendore degli occhi, assisteva Orfilia Rico: è una donna superiore, nobile, come poche ne ho conosciuto”.
“E la Baker?” incalzo io, perché la grande reclame fattasi attorno a questa mulatta per il suo sedicente matrimonio con Don Pepito principe napoletano, stuzzica la mia curiosità.
“È un bel tipo: come negra è bellissima: sembra una statua di bronzo patinato: sul palcoscenico poi a pà proprio un diavoletto! E poi è così spiritosa, vivace, intelligente: piace per forza anche agli scettici.
E Angelina Pagano? che donna! è una delle più grandi di laggiù; prima attrice giovane con Eleonora Duse, ha imparato dalla Scomparsa l’arte delle pause: ha una voce d’oro ed un viso che è un cinematografo (l’espressione popolare è efficacissima e rende l’idea magnificamente).
Verrà probabilmente a fare una “tournée” in Italia con la “Compagnia infantile” che dirige, i cui attori sono tutti ragazzi che recitano in spagnuolo per lo più: qualcuno che conosce l’italiano alternerà la recitazione spagnuola con declamazioni delle migliori poesie dei nostri poeti.
Angelina Pagano ha voluto, con pensiero gentile, secondo l’usanza americana, offrire, alla vigilia della partenza, un regalo a tutti i miei comici: dal più piccolo al più grande, indistintamente: nessuno è stato dimenticato”.
Senza attendere una mia domanda, Rosetta Mazzi continua: “Anche Ruggeri ho conosciuto: hanno offerto a lui e a me un banchetto al Salon Doré di Buenos Ayres ed eravamo vicini come vuscià e mi. È un poco taciturno ma cordiale: non ride mai, tutt’al più sorride e sembra fare ciò per accontentare gli altri, non per una sua intima allegria. Ma la sua signora, che è una parigina giovanissima ed elegantissima, è piena di brio e di vivacità e mette tutti di buon umore”.
C’è una lunga pausa: Rosetta Mazzi per la sua modestia non vuole parlarmi dei suoi successi, io credendola stanca, non oso interrogarla. È’ ancora essa che rompe il silenzio: ha troppo voglia di farmi sapere che, nella sua “tournée” non ha dimenticato di fare il bene, il bene che porta sempre fortuna.
“Abbiamo dato una recita a beneficio dell’Ospedale Italiano” e mi porge un giornale, poiché le ripugna, nella sua delicatezza, dirmi la somma versata. E così vengo a sapere che sopra un incasso di 1500 pesos, sono stati donati a l’ospedale italiano 750 pesos: caspita: la Signora Mazzi non lesina!
“E gli affari Signora Mazzi, gli affari?”.
“Oh, bene, bene, a Rosario ed a Montevideo dove, per la prima volta si recava una compagnia genovese, un vero trionfo. A Montevideo poi, cose grandi: ho avuto l’onore di essere ricevuta dal Ministro d’Italia e di essere invitata da lui, assieme a mio marito, ad una colazione intima da lui offertaci”.
Anche a Buenos Ayres, ci hanno molto festeggiato; ma, si sa, a Buenos Ayres, c’erano, contemporaneamente, sei compagnie italiane, ed il buon pubblico italiano – che poi è composto in gran parte da figli di italiani nati in Argentina – ha un bel dividersi: non riesce ad affollare completamente sei grandi teatri.
C’era la Comp. di Ruggero Ruggeri, con dei prezzi da Nababbo; la Compagnia Napoletana dei Viviani (che simpatico figieu!); la mia; due compagnie di operette: Odette e Maryon; Sanivò; e la compagnia di opere Italiane Marconi.
A Buenos Ayres il Circolo degli Italiani ci ha offerto un banchetto gigante con più di 150 coperti.
Abbiamo fatte le nostre brave serate d’onore: serata d’onore mia con “A lalla d’America” della signora Trivero (a questa mia serata d’onore hanno voluto prender parte, in segno di fraternità, Angelina Pagano, con un monologo brillante, Giulia Cassini Rizzotto, con declamazioni nei vari dialetti, Mario Cappello con il suo ormai famoso repertorio di canzoni di Genova). A Rosario, per mia serata ho dato la bella commedia di Carlo Bocca “A Marcheiza Refrescumme”.
Ortolani, il mio primo attore, ha dato per sua serata d’onore la sua commedia “Vento de tramontann-a” e fu apprezzatissimo come autore e come interprete; egli poi ha avuto un successo personale nella bella commedia del Gallina “El moroso de la nona”, da lui tradotta con il titolo suggestivo di “Galanti antighi”.
Preve ha avuto in America ciò che si dice grandi soddisfazioni: e così pure Cappello, del quale non si dice nulla, perché tutto è poco: già la musica a l’é un-a cossa che pigia coscì ben u coeu!
A proposito di Cappello: sa che non è tornato con noi? È rimasto a Buenos Ayres, per un lungo contratto che ha firmato con la Radio di laggiù. Abbiamo fatto anche la serata di tutti gli attori, a ciò che tutti fossero festeggiati, con la commedia tutta da ridere “Quande o diao u ghe mette a coa” del Testoni”.
Rosetta Mazzi prende su un tavolino un pacco di fotografie: sono tutte fotografie al lampo del magnesio prese durante i “simposi”; simposio con Ruggeri, simposio con Viviani, simposio al Circolo degli Italiani…
Tra tutte queste fotografie a soggetto lieto, colpisce e fa impressione profonda una in cui il centro è dominato da un feretro sul quale Rosetta Mazzi deposita un fascio di fiori.
“Chi e?” la domanda sgorga spontanea e la signora Mazzi, con la voce densa di rimpianto e di malinconia parla:
«È Roberto Casò, uno dei più grandi attori argentini: dovevamo recitare assieme il famoso “Trabocchetto” che, rappresentato da Gilberto Govi tanto piacque: in questa commedia io doveva sostenere in genovese la parte della moglie, e Roberto Casò in spagnuolo quella del marito. C’era molta attesa per questa rappresentazione e, improvvisamente, il grande attore è morto, di un colpo. Non c’è proprio la spesa, allora, di lottare tanto per raggiungere qualche cosa: anche i grandi, come i piccoli, se ne vanno: così!”.
La malinconia si distende a larghe pennellate sopra il suo caro buon viso schietto e semplice; per dissiparla io dico: “Ho visto i giornali di laggiù: “La Prence”, “La Razon”, “La Nacion”, “La Patria degli Italiani”, “Critica”: tutti concordi nel tributarle elogi”.
Rosetta Mazzi si rischiara: torna il suo riso dei momenti buoni; “E sì… laggiù non c’è invidia, né partigianeria, e c’è entusiasmo, tanto, tanto entusiasmo e spirito di fraternità, e desiderio di aiutare!”
“Ora mi parli un po’ del suo repertorio, del come è stato accolto, e dei suoi progetti”.
“Cianin: una cosa per volta: le ho detto che spero di tornare in America nel 1931: per ora mi riposerò – sono stanca, tanto stanca! – poi riprenderò le mie “tournées” in Liguria, con commedie nuove e vecchie, per non fare arrugginire la compagnia; anche nelle altre città d’Italia, dove ci sono tanti genovesi – i genovesi sono dappertutto – vorrei andare in seguito: vedremo! Progetti io non ne ho: l’uomo propone e Dio dispone: ho delle speranze, ma di queste non si deve parlare, perché le speranze sono come il vento: chi le ferma è bravo! Il repertorio che ho portato in America, vasto di ben 28 commedie di cui appena 11 sono riduzioni e 17 originali di autori genovesi – il che è enorme, se si pensa che la mia compagnia conta appena un anno – è stato accolto molto bene: vi sono state, sì, le produzioni più o meno applaudite, ma tutte indistintamente, sono piaciute al pubblico ed alla stampa. La commedia di Carlo Bocca “A Marcheiza Refrescumme” fine, quasi sentimentale malgrado l’allegra scena della Pescheria, è stata gustata da un pubblico di elezione, come pure quella di Bruno Pezzotto “O pecou da scia Nettin” migliore per elementi scenici e per spunti comici di prima qualità. “Oh che vignetta” ha fatto sbellicare dalle risa e si capisce – “A lalla d’America” ha avuto successone: era anche adatta all’ambiente e, si può dire di attualità quotidiana. La bella commedia quasi romantica di Chiossone “O boschetto de cetruin” un vero gioiello commentata dalla buona musica di Di Franco, è stata una vera “finezza”. Grande commozione destò tra il pubblico “A scia Marinin” del Testoni, così densa di dolore sotto alle battute comiche.
Ora metterò in scena, tradotte da Artusa, sampierdarenese che da 18 anni abita a Buenos Ayres, due tra le più apprezzate commedie del repertorio di Orfilia Rico: “Mamma Clara” tre atti di Federico Mertens, e “La frana” tre atti di Escobart. Saranno le due novità più importanti, credo, della nuova stagione, se qualche pezzo grosso vorrà degnarsi di suonare alla mia piccola porta che sa accogliere benevolmente i più umili”.
Rosetta Mazzi si è alzata guardandosi attorno con visibile impaccio: indovino l’ora da questo suo movimento: infatti le sirene urlano alle officine e le campane, a tutti i campanili, cantano a distesa il mezzogiorno.
“Come è passato presto il tempo!” dico io, per dire una cosa molto nuova, di cui i miei lettori mi saranno grati.
“Eh, discorrendo! …”.
Ci salutiamo, ormai fatti amici. Ringrazio Rosetta Mazzi ma essa, esempio raro tra quanti mai ho intervistato, mi dice: “Son io che debbo ringraziarla”.
Sull’uscio mi fermo: “E il ritorno? – dico io: chissà quanta gente all’imbarcadero!”.
“Quando, di lontano, abbiamo visto la nostra Zena, è stato un gran bel momento: si può dire qualunque cosa, ma ci si vuol bene a questa nostra città. Ad attenderci sulla banchina c’erano tutti i nostri amici e parenti – quanti! – e la fida “Compagna” – senza banda, però – peccato! – poiché tutti i bandisti, essendo noi giunti in giorno feriale, erano al loro lavoro quotidiano”.
“Ora ci sarà un banchetto: tutti i salmi…”.
“Segùo, e sempre a “Compagna”, viva la “Compagna”!
La saluto definitivamente e scendo di corsa le scale. Mi ferma nella mia corsa la voce di Rosetta Mazzi la quale, dall’alto del ballatoio, penzolandosi sulla balaustra, mi grida, con l’affanno di chi ha dimenticato qualche cosa che gli stava molto a cuore:
“Spero che i Genovesi saranno contenti di me!”.