“Champagne, per brindare a un ricordo! E bravo! Adesso che tua moglie ha la busta sei bello che sistemato. Alla faccia mia!”.
Così mi disse Ludo, la mattina dopo, al telefono, dopo che gli ebbi riferito che mia moglie aveva trovato un impiego a tempo indeterminato.
“Anche tua moglie lavora” gli ribattei, e lui scoppiò a ridere: “Ma non dire delle belinate! Quel negozio è solo un debito, non ne parliamo neanche. Adesso mi restituisci la caparra, visto che sei diventato ricco”.
Gli feci presente che mia moglie non aveva ancora nemmeno cominciato, e gli chiesi se poteva gentilmente aspettare almeno un mese e lui rise sempre più sarcastico “Sì, aspetto un anno. Te li scalerò dalla prima paga, pulcino. Con Gipo siamo d’accordo che ci pagherà ogni settimana alla domenica, alla fine della serata. Ma non ci pensare, siamo ancora a martedì, magari ci cacciano già stasera dopo ti avranno sentito cantare”.
“Se vuoi non canto…” mi affrettai a dirgli e lui si replicò, sempre più sarcastico: “No, devi cantare, perché comunque vada sarà un successo! E mi raccomando, mettiti una bella camicia rossa, non mi verrai mica conciato come nella balera di Pasquale, se no ti caccio io! Ora adèsciati, vieni dal negozio, che andiamo a montare subito il palco con calma e stasera andiamo là alle sette e mangiamo più tranquilli. Montiamo anche le luci, sarà uno spettacolo!”.
Intanto che andavo da lui facevo i conti: 50.000 lire a serata, 300.000 alla settimana, togliendo le 700.000 della caparra, praticamente in quel primo mese avrei guadagnato 500.000 lire per 20 serate, cioè 25.000 Lire a serata… Anziché avanti, stavo andando indietro!
Certo, una volta saldato il debito avrei guadagnato di più, ma come lo stesso Ludo aveva detto c’era il rischio che fossimo cacciati da un momento all’altro e in tal caso avrei sgobbato per pochi spiccioli. Solo il pensiero mi toglieva energia. Ero disorientato, non riuscivo a capire come mai dopo un incredibile abbrivio la mia carriera si fosse involuta e mi ritrovassi in quelle ambasce.
Dove avevo sbagliato? Di quale colpa mi ero macchiato? Quella di essere diventato padre?
Il ristorante era bellissimo: una terrazza verandata di circa trecento metri quadrati, sospesa sul mare; la moquette azzurra e i muri, i mobili e i tavoli di un bianco ancor più abbagliante sotto la luce dei faretti rendevano il tutto veramente chic. Mi sembrava di essere salito su una lussuosa nave da crociera in partenza per un romantico giro del mondo. Per noi musici c’era un angolo dedicato, su un gradino rialzato, e con le luci colorate potevamo anche sembrare due grandi musicisti. Gipo, il gestore (Ludo mi sussurrò che di sicuro dietro di lui c’erano dei soci in incognito), era un ometto basso e tracagnotto, con la testa quadra e due occhietti indagatori blu come due mirtilli, incastonati su un viso pallido perennemente contratto in una specie di sorriso enigmatico. E il fatto che fosse di poche parole e quel suo abito scuro elegante da maître così curiale, lo rendeva ai miei occhi ancor più insondabile e inquietante.
A gesti, ci invitò a sederci a un tavolo seminascosto da una paratia dove fummo serviti subito dal ragazzo di cucina. Spaghetti al pomodoro per primo piatto e per secondo una cotoletta di pollo condita con insalata mista.
“Spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè, ti va bene Pierin? Che vuoi di più. Così non gravi sul bilancio familiare!” disse Ludo sarcastico.
Appena il tempo di finire di mangiare e si erano già fatte le otto, salimmo sul palchetto e cominciammo a suonare: c’era pochissima gente, tre o quattro coppie di mezza età e una cena di lavoro di soli uomini distinti i quali discorrevano affabilmente fra loro come se nel locale non ci fosse nessun altro.
I camerieri erano due, andavano e venivano trafelati dalla cucina, uno era piccolo, giovane e scattante e sorrideva sempre in un modo che mi sembrava provocatorio, l’altro, più anziano e corpulento, aveva l’aria stanca e irritata e strascicava i piedi.
Ogni volta che passavano nelle nostre vicinanze ci dicevano qualcosa, ma si rivolgevano perlopiù a Ludo, lo conoscevano; il cameriere piccoletto a volte si fermava a guardare le sue due tastiere, il mixer con tutte le spie verdi e rosse e gli diceva in tono di scherno: “Miah, mi pari Robocop!”.
Ludo non si girava nemmeno a guardarlo e gli rispondeva, con una smorfia di disprezzo: “Senti, vanni a purtà i piatti”.
Mi raccomandò di non dare troppa confidenza a quei due, ché erano invidiosi del fatto che noi guadagnassimo più di loro e ci divertissimo pure.
Ma io non mi stavo affatto divertendo, ero preoccupato che ci fosse così poca gente: “Incasseranno poco e non potranno pagarci la serata…” sussurrai a Ludo, e lui mi disse in tono rassicurante: “Tu abbi fede, ché tra poco arriva U Megu, un mio amico che mi viene a sentire ovunque io vada, solo lui spenderà tanto di quel grano che ci paga anche le serate di domani e dopodomani”.
E infatti di lì a poco arrivò un bell’uomo sulla cinquantina, vestito in modo sportivo ma elegante, accompagnato da una bellissima donna che ne aveva al massimo trenta, anche lei molto elegante e sempre sorridente. U Megu aveva prenotato il tavolo di fronte a noi e dopo aver fatto accomodare la fidanzata tenendole la seggiola, si accostò a Ludo e gli sussurrò qualcosa all’orecchio; Ludo annuì e sfoderò il suo ruffiano sorriso a trentadue denti in segno di complicità.
Il cameriere piccolo arrivò solerte e mentre accendeva le candele sul tavolo, U Megu gli ordinò di portare una bottiglia di Veuve Clicquot e gli raccomandò di portare due coppe anche per “l’orchestra”.
Quello trasalì, quindi si avviò di malavoglia e dopo che fu tornato ci servì lo champagne con ironico sussiego. A quel punto Ludo si alzò in piedi ed io macchinalmente lo imitai, sollevammo la coppa al cielo e brindammo con U Megu e la sua bella ragazza.
Poi Ludo gridò nel microfono, con un mare di reverbero, e tutti i presenti saltarono sulle sedie: “Signori e signore! Ecco a voi Pierin! Grande pianista e grande cantante! Non ve ne fregherà niente ma sappiate che è reduce dai suoi grandi successi in quel di Recco e vi canterà Champagne!”.
Mi puntò contro l’occhio di bue e mentre sollevavo una mano per ripararmi gli occhi, Gipo spense tutte le luci, partì la base e non potei fare altro che cantare. E nonostante mi sentissi ridicolo mi inebriai, non avrei mai creduto che potesse essere così liberatorio. Mi immedesimai e interpretai e a ogni mio accento d’enfasi sentivo Ludo ridere e dire: “Bravo Pierin!”.
Quando la canzone finì, Ludo spense il riflettore e Gipo riaccese le luci e si udì un applauso volenteroso e frammentario provenire da tutte le parti e mi sentii venire meno dalla vergogna. U Megu e la sua ragazza continuarono ad applaudire forte, non senza una certa ironia, e fui lieto quando la smisero e brindarono di nuovo guardandosi con occhi innamorati.
Rivolsi a Ludo uno sguardo d’odio che lui non percepì, mi strizzò l’occhio, poi parlò ancora nel microfono: “Non vi preoccupate, Pierin sa solo questa!”, strizzò l’occhio anche a U Megu e fece partire la base di Più bella cosa e U Megu trasalì di felicità e ordinò un’altra bottiglia di Veuve Clicquot.
Andammo avanti a suonare fin dopo mezzanotte, tutti gli altri erano andati via da un bel po’, ma U Megu voleva ancora ascoltare musica e si convinse ad andarsene solo quando si accorse che Gipo aveva lasciate accese solo le luci che illuminavano il suo tavolo.
Ludo mi disse che il suo conto ammontava a più di 300.000 lire e che sicuramente sarebbe tornato tutte le sere. E infatti U Megu si presentò tutte le sere, prenotando sempre il tavolo davanti all’orchestra.
Solo che veniva sempre con una fidanzata diversa, erano comunque tutte giovani e belle.
Stravedeva per Ludo: “Sei il numero uno!” gli diceva estasiato, alla fine di Più Bella cosa.
Al venerdì e al sabato il ristorante si riempì come un uovo e mi tremarono le gambe quando come al solito dovetti aprire la serata con Champagne. Ma ero sempre meno impacciato, nonostante che Ludo mi presentasse sempre con la sua ironia tagliente.
Alla gente Champagne piaceva, pure ai camerieri, alla fine della serata la fischiettavano mentre sparecchiavano. Finalmente arrivò domenica e U Megu si presentò con la sua fidanzata ufficiale: Maria Vittoria, una giovane avvocata rampante, la più bella di tutte, molto charmant, occhi neri grandi, vivi, penetranti, gambe lunghe e sottili.
“Non capisco perché U Megu si perda dietro tutte quelle altre, Maria Vittoria è decisamente superiore” sussurrai a Ludo, e lui mi guardò ironico: “Ma meno male che a U Megu piace la cenetta a lume di candela con una sempre diversa. Se fosse monogamo come te lo vedremo solo di domenica. Beviti la Vedova e pensa a suonare, che è l’unica cosa che sai fare bene, ma non è manco detto”.
Proprio in quel momento Maria Vittoria si alzò di scatto da tavola e con uno sguardo furente lanciò il tovagliolo in faccia a U Megu, che rimase a bocca aperta come paralizzato, quindi gli voltò le spalle e sbattendo i tacchi andò al guardaroba, prese il cappotto, aprì violentemente la porta di cristallo e sparì nella notte.
Tutti i presenti avevano seguito la scena e c’era tutto un brusio, io e Ludo continuammo a suonare sperando di stemperare la tensione: U Megu dopo un po’ si riprese e tra una canzone e l’altra disse a Ludo: “Tanto poi torna, purtroppo. Si è messa in testa che devo cambiare”.
Finì la cena e rimase là fino alla fine facendo una telefonata dietro l’altra. Non mi pareva soffrisse, anzi, parlava al telefono sorridendo divertito.
Alla fine della serata, col locale ormai vuoto, Gipo si mise nell’angolo più in penombra e ci fece cenno di andare da lui e ci consegnò la paga brevi manu: 600.000 Lire a testa, tutti in biglietti da 100.000.
Ero incredulo mentre Gipo faceva scorrere tra le dita, con una destrezza anche maggiore di quella di Ludo, tutte quelle banconote: “Dì, Gipo, hai visto come ci è rimasto bene Pierin? Non gli par vero!” disse Ludo ridendo.
Gipo non rispose, sempre tutto d’un pezzo, nella sua giacca scura e con quel sorriso enigmatico stampato sulla faccia. A quel punto gli chiesi se dovessimo rilasciargli la fattura e Gipo e Ludo trasalirono e Ludo mi guardò irato.
Poi Gipo disse, con la sua voce sommessa e nasale, dal moderato accento genovese: “No, niente fattura, però a proposito, Ludo, bisogna che mi vai all’ENPALS a fare la dichiarazione, se no poi arriva la multa e dobbiamo smettere di fare musica. Vacci domani e fammi sapere”.
Quando fummo per strada Ludo mi diede una pacca sulla spalla e mi disse gioviale: “Veramente ti credevi che lo zio Ludo ti portasse a suonare per 50.000 Lire merdose? Ti ho detto che faremo il grano e il grano faremo. Però tu sei troppo ingenuo, Pierin, avresti dovuto dirmi non ci vengo, ché se ti fai appurare che hai bisogno la gente se ne approfitta, mica sono tutti come lo zio Ludo, che avrà i suoi difetti ma è onesto con chi lo merita”.
Ero confuso e felice, gli dissi che ora potevo dargli almeno la metà della caparra: “Ma non devi darmi niente! Lo sai che significa caparra? Sono soldi che tornano, quando restituiremo la roba a Merula me li renderà, e se ce la terremo mi darai la mia metà, oppure mi terrò io qualcosa. Ora vattene a casa e fai vedere alla moglie che hai guadagnato bene, così non ti sentirai troppo da meno, ché lo so che ti senti in difetto con lei ché ha un lavoro con la mutua e le ferie pagate. Piuttosto che ti è saltato in mente di parlare di fatture con Gipo? Che, non ti sta bene guadagnare 600 sacchi puliti a settimana, ne vuoi lasciare metà allo Stato? Chi è lo Stato? Siamo noi? Ma lo vedi che sei un boccalone? Se fossimo noi interverrebbe ogni santa volta in cui siamo nella merda, invece quando mi ci sono trovato non ho mai visto nessuno e mi son sempre dovuto arrangiare da solo. Speravo che Gipo si dimenticasse della dichiarazione di gratuità e invece ora ci tocca di andare all’ENPALS a fare la sceneggiata con quella brutta gente. E va bene, ci si vede domani in Via Mascherpa alle dieci. Tu però mi fai il favore di non aprire bocca, anche se ti dovessero chiedere che tempo fa, mi raccomando, gli dirò che sei mio cugino muto dalla nascita”.
La mattina dopo, alle dieci in punto, eravamo in Via Mascherpa.
L’ufficio dell’Ente Nazionale Lavoratori dello Spettacolo era in uno dei tanti palazzoni di cemento armato eretti nel dopoguerra che delimitano Piazza Rossetti, si saliva al primo piano e in fondo a un lungo corridoio si apriva una porta a vetri passata la quale si entrava in un enorme appartamento diviso in vari uffici, di cui solo il vasto ingresso era accessibile al pubblico.
Oggi l’ENPALS non esiste più, è morto il 31 dicembre del 2014, dopo 67 anni di vita e in quell’ufficio di Via Mascherpa chissà cosa ci sarà.
Io ero stato in quell’ufficio solo la volta in cui mi ero iscritto, Ludo invece era di casa perché ogni volta che veniva ingaggiato ci andava a dichiarare di suonare gratis per manlevare il suo datore di lavoro da ogni onere contributivo. Rivedendo quell’arredo privo di gusto, illuminato dalla luce fredda dei neon, riprovai lo stesso senso di oppressione della prima volta.
Non solo mi pareva impossibile che la dichiarazione di Ludo potesse essere accolta, ma paventavo che ne sarebbero derivate conseguenze sanzionatorie anche per me. Il funzionario, un tizio panciuto con due baffetti e dai modi altezzosi, appena vide Ludo subito gridò: “Eccolo qua! Sentivamo la sua mancanza!”. “Io no.” rispose Ludo con altrettanta altezzosità e il funzionario si fece più aggressivo: “Non mi dica che è venuto qui per l’ennesima volta a dichiarare di suonare gratis perché le dico subito che se ne può andare”.
Ludo non si scompose e replicò: “Lei è tenuto ad accogliere la mia dichiarazione, a meno che la legge non sia cambiata”.
Il funzionario si inalberò: “Ma insomma! Crede proprio che io abbia l’anello al naso? Lei è sempre in giro a suonare, non è possibile che lo faccia gratis!”
“Perché non è possibile? Per me è una passione chiù forte e ‘na catena.”
“Sì, la passione! Lei ora è giovane e crede di fare il furbo, ma se ne pentirà quando sarà diventato vecchio!”.
“Belin, giovane! Sono bello che andato e volete pure che vi dia dei soldi che non mi riprenderò mai più?”.
Il funzionario sussultò, aspettò a rispondere, poi replicò con un tono sorprendentemente paziente: “Dico giovane nel senso che ha anni da lavorare ancora. Ma poi chi gliel’ha detto che i soldi versati non se li riprenderà più? C’è una legge, se lei versa il dovuto…”.
“Ma non mi faccia ridere! Quale dovuto! Vi prendete il 33% sui cachet e ci riconoscete un anno di pensione solo se facciamo 120 serate all’anno, altrimenti è come non averlo fatto, e dobbiamo arrivare a 2400 per una miseria quando saremo ormai sciancati. Ma a me tutto questo non mi interessa, io suono solo per divertimento”.
“lo chiami come vuole, ma se va a suonare tutte le sere è lavoro!”
“Perché, non mi posso divertire tutte le sere?”
“E si diverte sempre nello stesso locale? Strano. Ci saranno pure delle volte in cui avrà di meglio da fare e se anche allora va a suonare vuol dire che ci guadagna, non mi sembra scemo, a chi crede di prendere in giro!
“Non è strano per niente divertirsi sempre nello stesso locale, ci si conosce, è più bello che a casa e io ci vado apposta proprio perché non ho mai di meglio da fare, mi tolgo da casa, ché mia moglie non mi regge.”
“Ah, allora vive a spese di sua moglie?” “Se fosse così vivrei sotto un ponte.”
“E allora come vive?!” “E a lei cosa gliene frega. Comunque, il grano lo faccio col gioco.”
“Ah, col gioco! A che gioco gioca?” “Roulette! Rien ne va plus! Les jeux sont faits! L’unico gioco onesto che conosca.”
“Onesto?” “Sì, io i soldi te li do in contanti e se vinco tu me li dai in contanti, subito, senza ricevute e trattenute e altre musse.”
“Vuole farmi credere che tutte le volte che le serve denaro va al Casino e, come d’incanto, vince? Belàn, allora vengo anch’io!”
“No tu no! Che magari è la volta che perdo. Vede, il mondo è diviso in perdenti e vincenti: i primi sono fatti per starsene intanati tutto il giorno in un ufficio a mangiare polvere in mezzo alle scartoffie; gli altri invece son fatti per starsene all’aria aperta, senza orari, senza timbrare il cartellino e fare come vogliono. E non è che vinco come d’incanto, ci vuole l’intelligenza ed è proprio quella che distingue i perdenti dai vincenti.”
“Mi sta dando dello scemo?”
“Per carità! Lei è stato intelligentissimo a piazzarsi in quest’ufficio. Però, se sono nato vincente non è che mi debba buttare la croce addosso.”
Mi aspettavo che il funzionario si mettesse a gridare improperi e chiamasse la polizia, invece rimase basito.
Stette un po’ a riflettere, poi disse, con tono paternalistico: “Bene, lei è convinto di essere un vincente, in realtà sta facendo il gioco di quei furbacchioni che la stanno sfruttando. Sì, sfruttando, perché la musica fa richiamo, porta gente nei locali. Quelli sì che sono vincenti, le stanno facendo credere di pagarla bene, ma le stanno mangiando la vita e quando se ne accorgerà sarà troppo tardi, come fa a non capirlo? Altro che vincente!”
“Ma veramente la gente nei ristoranti ci va per mangiarsi le cozze e i branzini. Non è che facciano a cazzotti per venire a sentirmi fare lo scemo e non credo proprio che se non ci andassi più il locale fallirebbe.”
Il funzionario fece un gesto di resa: “Lasci perdere, tanto con tipi come lei è partita persa. Vada pure, giochi pure alla roulette, signor Vincente! Ne riparleremo tra vent’anni!”
“Se ci saremo ancora sarà un dispiacere e ora mi dia il foglio, così lo firmo e siamo a posto.”
Il funzionario porse a Ludo il foglio con una smorfia di disgusto e Ludo firmò e uscimmo. “Ludo, io non l’ho firmata!” gli dissi accorato: “Non serve, tu non esisti, il borderò della SIAE lo firmo io”. “Ma lo hai provocato troppo, se venisse a fare un’ispezione?”
“Chi, baffetto? Veramente ce lo vedi che si muove di casa alle nove di sera e viene là con la cartella a scrivere il verbale? Non lo pagano mica come quelli della SIAE. Ci vuol tutta che vada in ufficio tutte le mattine. E anche se venisse, Gipo lo farà sedere e gli porterà una piattata di spaghetti allo scoglio, vedrai come si addolcisce e se farà domande su di te gli diremo che ti sentivi solo e sei venuto per stare in compagnia e già che c’eri ne hai suonate due”.
“Ma non è onesto tutto questo!”.
“Ma non hai ancora capito che siamo come le bagasce, che lavoreremo fino a quando avremo forza, salute e un aspetto presentabile? A baffetto sta a cuore che versi anche gente come noi perché così l’ente ha i soldi per pagargli lo stipendio, non crederai mica che volesse darci un saggio consiglio di vita. Alla fine la pensione la prenderanno solo impiegati e funzionari e gli orchestrali con contratto fisso, se va bene. Alla faccia nostra che andiamo in giro come beline, con qualsiasi tempo, a suonare de qua e de là. Monta e smonta, e guida a qualunque ora della notte, sperando che un ‘mbriego non ti picchi dentro e ti mandi storto tutta la vita. No, Pierin, quella gente non può capire, e non gliene frega nemmeno di capire cosa significhi studiare ogni giorno come arrivare alla fine del mese. Se di mattina appena svegli gli tira un pelo cosa fanno? Alzano il telefono e comunicano al collega: “pronto, oggi non mi sento tantu ben e alua nu vegniu, ti mando con comodo il certificato medico, intanto marcami l’assenza per malattia.” Che se ne vadano tutti a fare in culo, il mondo nostro funziona alla reversa rispetto al loro; se non ti presenti a suonare ti pigi nu bellu belin e spesso anche quando ti presenti, che non sono mica tutti come Gipo, che paga come una banca, e lo sai. E alua! Che, avrei dovuto dire a baffetto quanto ci dà Gipo a serata? Così gli fanno il verbale e addio! Che poi si sparge pure la voce che siamo dei delatori e non lavoriamo più da nessun’altra parte. Ma per cortesia, Pierin! Invece quel 33%, che poi è un 54%, ce lo prendiamo noi e ce lo spendiamo pure subito, che del domani non c’è certezza”.
Lo guardai smarrito e mormorai “La cicala e la formica…”, Ludo rise: “La cicala un cazzo, alla fine muore pure la formica, dopo essersi fatta un culo così per niente. Su, smettila Pierin, che già ho perso troppo tempo stamattina”.
Quella sera c’era una grande novità.
Gipo, ci venne incontro euforico, non sembrava nemmeno lui ma la felicità fatta persona. Ci presentò Liuba, una ragazza russa che non aveva neanche trent’anni e che era alta perlomeno il doppio di lui. Era di una bellezza vistosa, aggressiva, il fisico statuario, il passo marziale, una cascata di capelli colore dell’oro, gli occhi dal taglio felino, grigi come il Baltico, seducenti e alteri, il naso all’insù, le labbra sottili sempre serrate in un sorriso ladro e come pronto ad accendersi di ira, i denti bianchissimi, dritti, forti, che lei mostrava spesso come una tigre, sorridendo ambigua e minacciosa.
Elegantissima, con un vestito scollacciato conturbante e gioielli di foggia appuntita e scarpe col tacco vertiginoso.
Nel vedermela davanti all’improvviso pensai: splendente nelle armi. Brillava come una regina sotto la luce dei faretti riverberando lampi sinistri, ci salutò a mala pena.
Ludo mentre accendeva l’impianto mi borbottò: “La vedo male”.
Da quella sera Liuba divenne una presenza costante nel locale, arrivava sempre intorno alle nove, Gipo non appena la vedeva arrivare, al di là della porta di cristallo, andava in estasi, mutava immediatamente fisionomia, chiunque si sarebbe accorto del suo innamoramento.
Anche quando il locale era pieno, Gipo lasciava perdere qualsiasi faccenda stesse facendo per correrle incontro e quando la raggiungeva lei si chinava su di lui per abbracciarlo e quasi lo sollevava da terra, come una madre quando accoglie in braccio il suo bambino.
Per me quella scena era solo tragica, per Ludo invece solo comica, ma alla lunga tutta quella storia finì per irritarlo.
“Non ci sarebbe niente di male a lepegare con una bella figa, il problema è che Gipo si è fissato. Guardalo là, la belina, invece di mandarla a fare in culo, tanto ormai sa com’è, non ce l’avrà mica placcata d’oro. Invece là che stende i tappeti al suo passaggio. Il problema è che Liuba è una di quelle che ti mangiano tutto e Gipo finirà per fare qualche sbaglio che poi pagheremo anche noi”.
Così mi disse Ludo una sera prima che suonassimo Una lunga storia d’amore, che Gipo dedicava a Liuba ogni volta.
Passarono due mesi, la gente cominciò a diradarsi, c’era sempre tensione, finché una domenica Gipo, dopo averci consegnato la paga settimanale, ci fece cenno di sederci sulle poltroncine bianche messe in un angolo a far da salottino vicino alla porta d’ingresso e ci disse: “Vi devo parlare”.
Aveva uno sguardo piuttosto abbacchiato, era la prima volta che lo vedevo depresso, era ingobbito, da tutta la sua persona trapelava una grande sofferenza, sembrava diventato più piccolo, come se la terra se lo stesse rimangiando.
Senza preamboli, ci raccontò che Liuba giorni addietro gli aveva chiesto in prestito la sua Lancia Thema Ferrari, perché doveva recarsi a Torino per una faccenda che non aveva voluto specificare. Gipo le aveva raccomandato di non correre ma Liuba non gli aveva dato ascolto e arrivata all’altezza di Alessandria aveva perso il controllo ed era andata a sbattere contro il guardrail. L’auto si era sfasciata quasi completamente ma Liuba era rimasta illesa e aveva telefonato a Gipo il quale si era subito precipitato con l’altra macchina per raccoglierla. Ma una volta giunto sul luogo dell’incidente era rimasto allibito nel dover fare la conoscenza anche di Borek, un giovanissimo pallanuotista cecoslovacco che militava in una delle squadre della nostra riviera.
Anche l’atleta era illeso e aveva stretto vigorosamente la mano a Gipo guardandolo con una curiosità che a lui era parsa irridente. E Liuba, per nulla imbarazzata, aveva detto a Gipo che Borek era un suo amico fraterno, si conoscevano da tanto, gli voleva bene proprio come ad un fratello e perciò lei si era sentita autorizzata di dargli un passaggio, anche lui aveva da sbrigare delle faccende a Torino.
E alla domanda di Gipo: “Perché non me l’hai detto?” lei aveva risposto di non avergli mai parlato di Borek non perché avesse qualcosa di torbido da nascondergli, ma semplicemente perché non aveva avuto l’occasione, e comunque prima o poi gliene avrebbe parlato, non gli aveva mentito, lo diceva anche la canzone che quando le donne dicono una bugia è una mancata verità che prima o poi succederà, e non c’era niente di male nell’avere un amico, anzi era una cosa bella, che loro due, a volte, si mettevano a letto nudi, ma non per fare l’amore, perché così si confidavano meglio i sentimenti più intimi e profondi e spesso in quei frangenti lei gli aveva parlato di Gipo e di quanto lo amasse.
E Gipo, che pure aveva sempre immaginato che Liuba avesse anche più di un amico fraterno, perché gli aveva pur detto di essere una donna sensuale, forse vedendosi davanti quel ragazzo così aitante, si era ingelosito al punto di voler porre fine alla loro storia d’amore: “Lei in effetti me l’aveva detto che è fatta così, ma mi aveva anche promesso che con me avrebbe fatto un’eccezione, sapeva che sono geloso e non voleva farmi soffrire”.
Da un lampo dei suoi occhi ebbi l’impressione che Gipo fosse quasi fiero di metterci a parte di tutta quella vicenda e ripensai ad una delle tante frasi di Ludo: “Gipo non ne ha mai vista una”.
Non si era mai trovato in una situazione simile e pur soffrendo doveva essere anche contento di averne un motivo concreto.
Gipo continuò, con tono più accorato: “L’avevo pregata di non esagerare, di assicurarmi insomma almeno un certo periodo in cui stesse solo con me e lei questo me lo aveva solennemente promesso! Doveva dirmelo, non farmi fare la figura dello scemo. Così l’ho messa alla porta con tutte le sue cose, tutti i regali che le avevo fatto, anche se mi sono costati un botto, mi avrebbe fatto solo tristezza tenermi ancora tutta quella roba in casa. Ma lei già dal giorno dopo mi ha cercato di nuovo, mi telefonava ogni momento, mi è venuta perfino in casa a chiedermi scusa in ginocchio, mi ha messo a perdere che dovevamo tornare insieme, mi ha detto che un uomo che ama veramente sa perdonare. Allora l’ho perdonata, non sono per niente un tipo pietoso, ma le voglio bene ed è tanto innamorata…”.
A quel punto Ludo sbottò: “Innamorata?” scoppiò a ridere fragorosamente e la sua risata rimbombò sinistra nel locale vuoto e rabbrividii, credendo di indovinare cosa avrebbe detto dopo.
E indovinai: “Ma che cazzo dici Gipo!” lo guardò diritto negli occhi e Gipo rimase impietrito: “A parte che mi viene da ridere a immaginarmi Liuba che si mette in ginocchio davanti a te, che sei alto un metro e dieci, ma Innamorata mi pare eccessivo! Di te? Ma quella è innamorata del tuo tascone! Vuole tornare con te? E si capisce, con tutto il grano che ti sta mangiando! Perché non mi dirai che le regalavi solo vestiti e gioielli, di sicuro le davi un mensile. O Gipo, sveglia!”.
Gipo lanciò a Ludo un’occhiata di odio e le labbra gli fremettero.
Con la coda dell’occhio controllò anche me, se mai stessi ridendo come Ludo.
Io non ridevo certo, non sapevo da che parte girarmi. Ludo continuò: “Guarda Gipo che sbagli se t’incazzi con me, io te lo dico perché ti sono amico”.
Gipo replicò in tono gelido: “Tu sei solo un povero sbandato, un quaquaraqua che se la tira da artista. Non vali niente e vuoi fare il maestro di vita a me? Sparisci”.
Così parlò e ci ordinò di smontare e portare via le nostre masserizie e non farci vedere mai più.
Allora Ludo gli disse che lui stava per fare un’altra belinata, che se invece ci avesse tenuto là dentro per un altro po’ di tempo, almeno avremmo salvato le apparenze prima del tracollo finale e così magari si sarebbe trovato un compratore a un prezzo più alto.
Gipo rise: “Ma stai zitto e sparisci, che fai più bella figura!”.
Ci consegnò l’ultima paga, quasi ci sbatté in faccia quei denari, e prima di rintanarsi nel suo ufficio ci raccomandò di non fargli trovare più nessuna traccia di noi, nemmeno un riduttore di corrente. Ludo allora volle puntualizzare che non era lui che cacciava noi, ma eravamo noi ad andarcene e Gipo fece una smorfia di disprezzo e ci chiuse la porta in faccia.
Fu l’ultima volta che lo vidi, sarebbe morto di lì a due mesi d’infarto e il ristorante sarebbe stato venduto; a ripensarci era un’anteprima della sua tumulazione.
“E adesso cosa facciamo?” chiesi sconsolato a Ludo mentre, seduti su un grosso scoglio, guardavamo il nero mare che gorgogliava e ruttava indifferente, nelle fenditure dei massi.
“E non ti preoccupare Pierin, che qualcosa trovo, hai sempre paura di morire di fame tu. Ti è mai mancato il pane finora? Non hai sempre pagato l’affitto? Adesso hai anche la moglie con la busta e ti preoccupi? Potresti appendere il cappello al chiodo, fossi in te lo farei, visto che sei refrattario all’avventurosa vita dei musici”.
“Non avresti dovuto parlare così a Gipo.”
“Non è colpa mia se ha perduto il sonno e la fantasia. Dalla prima volta che ho visto Liuba entrare da quella porta ho capito che era finita la festa e adesso la festa è finita, perciò l’ho insaccato, non sono mica scemo come ti sarà sembrato. Perché credi che ci abbia fatto la sceneggiata sulle sue disgrazie sentimentali, voleva piangerci sulla spalla? Era un pretesto per arrivare a dirci di smammare, ché il locale va male, e io apposta gli ho dato corda, per non stare lì a fare troppi rigiri di parole, che non ce ne ho voglia. Di cagate così ne ho viste mai tante in tutti questi anni che capisco tutto al primo segnale. Quel deficiente aveva già deciso da tempo di cacciarci, Liuba gli avrà mangiato già tutto. Anche quei gondoni dei camerieri l’avevano capito, sere fa ho sentito il nanetto che diceva a Gipo: “si può sapere quanto gli dai a quei due, magari se li cacci ci ripigliamo”. E un altro, giorni fa, se n’è venuto che la vita è difficile, c’è crisi. C’è sempre stata crisi da che mi ricordi, belin pareva mio suocero, mi ha detto che lui si è messo dei soldi da parte e mi ha chiesto se per caso anche io mi fossi messo via qualcosa. Sì, mi sono messo via i capelli! Gli ho detto, e lui mi ha detto che se dopo tanti anni di lavoro non sono riuscito a mettermi via qualcosa sono un povero pezzente, che lui invece, dopo quarant’anni di lavoro si è messo in banca una settantina di milioni in tutto. Capirai che capitale! Dove cazzo vai con settanta milioni, ti ci paghi a malapena il funerale. Ma lui mica lo capisce, se no non farebbe il cameriere. Mi ha detto che lo scemo sono io che farò una brutta fine. Se è per questo lui l’ha già fatta da quel dì. Caro Pierin, fidati, non abbiamo perso niente, il locale è alla frutta, non ti sei accorto come lavoravano male? E facevano pure i furbi. L’altra sera hanno servito una bottiglia di acqua gasata che non era gasata e il cliente voleva chiamare i carabinieri e gli hanno dovuto offrire la cena, tu non ti accorgi mai di niente perché te ne stai sempre come un luasso appena pescato, pensi solo a sunà e vorresti che andasse sempre tutto bene. Meno male che c’è lo zio che ci sta attento. Abbiamo vinto un terno ad andarcene, credimi, vedrai se non ho ragione”.
Mi toccai la tasca per controllare che i soldi ci fossero davvero e sentendo il gonfiore del portafogli tirai un sospiro di sollievo.
Quanto mi sarebbero durati? Già la prossima settimana c’era la rata della macchina da pagare, poi quella di Merula.
Mi sembrava un incubo e speravo di svegliarmi presto. Sospettavo che Ludo stesse mentendo, che facesse tutta quella recita per non ammettere di avere sbagliato in pieno con Gipo e di essere in realtà anche lui molto preoccupato, forse ancor più di me, pentito con sé stesso per essere ingenuamente caduto nella trappola tesa da quell’uomo infido che soltanto una Circe come Liuba aveva saputo raggirare.
Ma Ludo era certo di non sbagliare mai, ed era a causa di questa sua convinzione che adesso ci ritrovavamo di nuovo senza lavoro e con poche prospettive.
Lui mi fissò divertito notando la mia espressione di sgomento e mi disse.
“Devi imparare a credere, Pierin”.
“In cosa?”
“In TE”.