Ottavo appuntamento con il musicista Piero Trofa. Come già spiegato, non è una collaborazione musicale, ma da scrittore. Trofa è molto conosciuto nell’ambiente dello spettacolo, ed è autore di colonne sonore per documentari e spot pubblicitari, ed insegna musica in scuole pubbliche e private. Alla musica si dedica completamente, sempre con grande attenzione agli aspetti formativi e alle connessioni che esistono tra musica e filosofia, la sua grande passione. Dal 1998 è presidente dell’Associazione Musicale Centro di Documentazione e Produzione Musicale “Ettore Panizza” con la quale organizza concerti ed eventi culturali in Italia e all’estero. In questo suo ottavo racconto narra la storia di quando con l’amico Ludo iniziò una produzione di CD musicali…
Franco Ricciardi
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Così, facemmo ritorno al “santuario” di Merula per comprare tutta l’attrezzatura occorrente a registrare e contraemmo un debito di cinque milioni. Versammo subito un milione di lire di caparra, più la prima rata di 200.000 lire e ci portammo via un favoloso mixer digitale della Tascam, con hard disk incorporato, un registratore DAT della Teac, strumento ad altissima precisione, e la vera grande novità del momento: il masterizzatore di CD PDR-509 della Pioneer! E già che c’eravamo, facemmo i signori e su consiglio del commesso comprammo anche dei cavi RCA del valore di 150.000 lire la coppia, ché assicuravano un passaggio di segnale più nitido e presente.
E il signor Merula, generoso come sempre, ci regalò una ventina di dischi registrabili che costavano 8.000 lire l’uno.
Ludo questa volta non ebbe pietà di me e dovetti dargli 600.000 lire. “Siamo soci” mi disse, mentre contava il denaro come un ragioniere, con un certo compiacimento che mi suonò come una minaccia. “Ed ora?” gli chiesi smarrito. “Sessanta minuti” spose lui sarcastico. Tornati a Genova, andammo dritti nel magazzino del negozio di sua moglie, che ormai era lo studio della “Ludo & Pierin Productions” e sistemammo tutti i componenti su appositi ripiani che Ludo, senza dirmelo, aveva già preparato giorni prima. Sembrava un banco di regia professionale! Ludo mi intimò di fare silenzio e si immerse nella lettura del libretto delle istruzioni, cosa che gli portò via parecchio tempo. Ne approfittai per riflettere sul saggio su Spinoza “Cogitata metaphysica” di Enrico Garulli e mi estraniai a tal punto che quando mi sentii dare un colpo sul braccio sobbalzai e, come svegliandomi da un sogno, vidi la faccia di Ludo ridente che mi diceva: “Stavo per telefonare alla neuro”.
Perché non ero professore in qualche scuola ad insegnare filosofia? Là avrei dato tutto me stesso con gioia, invece in quel bugigattolo ovattato di velluto mi sentivo come in trappola. Era tremendo, ma contro il destino non si poteva lottare. Meno male che almeno tutti i componenti funzionavano a meraviglia ed effettuammo la nostra prima storica registrazione: “Champagne”, neanche a dirlo. Fu davvero una forte emozione ascoltare la mia voce in modo così nitido, sebbene fosse un’incisione improvvisata e con molti difetti. Ma pur con le nostre scarse conoscenze in materia di mixaggio e di cura del suono, alla fine della giornata riuscimmo ad ultimare il nostro storico primo CD: “Ludo & Pierin, Grandi successi Volume 1”. Ludo fece subito dieci copie, quindi applicò alle custodie delle fascette che sua moglie gli aveva preparato: oltre al titolo del disco, stampato in bella grafia, c’era la foto di noi intenti a suonare, rispettivamente chitarra e tastiera. Ludo guardò compiaciuto quel nostro primo prodotto, poi mi disse, con la solita sicumera: “Stasera vado a suonare al Cucciolo, ma gratis, c’è un mio amico che fa gli anni e gli faccio il regalo, ma vedrai che li vendo tutti e dieci”. “A quanto?” gli chiesi incredulo: “Visto che ogni CD vergine costa 8.000 lire, ogni copia dev’essere rivenduta almeno a 15.000, se no è meglio andare per cartoni. Ma non è mica questo il business che ho in mente di fare, lo sai che penso sempre in grande…”. Ed era proprio quello che mi preoccupava. Naturalmente vendette tutti i dischi e il giorno dopo mi mostrò orgoglioso le 150.000 lire guadagnate e disse ridacchiando: “Con queste abbiamo già pagato un cavo, ma tra poco paghiamo anche gli altri. Vieni, andiamo in studio, che abbiamo il nostro primo cliente”. E infatti, davanti al negozio di sua moglie trovammo un giovanotto, nipote di un compagno dei tanti che Ludo aveva alla bocciofila, il quale voleva incidere un disco di canzoni d’amore cantate da lui per regalarlo alla sua fidanzata e nell’ultima canzone voleva metterci anche una dedica parlata. Era emozionatissimo e stonato come una campana e Ludo ogni tanto mi guardava ammiccante. Alla fine della mattinata il disco era pronto, avevamo inciso 8 canzoni, tutte “buone alla prima”, come disse Ludo mentendo spudoratamente. Il giovanotto avrebbe voluto inciderne altre ma Ludo gli spiegò che tanto la sua fidanzata non sarebbe andata oltre la prima e perciò inserimmo subito la dedica.
Ci vollero vari tentativi prima che il giovanotto riuscisse a parlare con voce ferma, era sempre più emozionato. Ludo gli osservò: “Vedi, ciccio, se dici “al mio grande amore Roberta”, lei se la intaglierà che esiste anche l’amore piccolo, perciò direi che sarebbe meglio che dicessi: “al mio UNICO amore Roberta” compris?”.
Il giovanotto arrossì, sorrise confuso e annuì, si concentrò e così parlò: “questo disco è dedicato al mio grande amore Roberta… grande e unico!” e Ludo, serafico, sentenziò: “Va benissimo lo stesso, abbiamo capito che non sei capace a mentire, è inutile che la rifacciamo”.
Fece due copie del disco e le consegnò al giovanotto il quale, tutto felice, ci pagò le 300.000 lire pattuite. Quando se ne andò, Ludo mi consegnò 150.000 lire e mi disse, sempre con la sua solita aria saccente: “Hai visto pulcino che cominciamo a rientrare di qualche spesuccia? Di questi polli te ne trovo quanti ne vuoi, in questo momento a Genova siamo gli unici ad avere questo fantastico apparecchio. Ma l’esclusiva non durerà tanto e fare i CD dedica sono belinate, perdiamo solo tempo, i veri colpi che dobbiamo fare prima che sia troppo tardi sono altri. Ora vai a casa e preparati un vestito buono se ce l’hai. Uno smoking sarebbe doveroso”.
“Sì, ce l’ho! Me lo regalò mia moglie quando cominciai a suonare, non si sa mai, mi disse.”
“Ecco, lo vedi come sei stato fortunato ad aver trovato una donna così assennata? Ma l’ho notato che la ragazza è a posto, l’unica cosa che di lei non mi torna sei tu. Comunque, cazzi vostri, basta che domani arrivi con il vestito in ordine, stirato e con tutti i bottoni, da non fare la figura di Sor Pampurio. E mi raccomando, la camicia bianca, non gialla e il papillon e le calze senza buchi”. “Ma perché, dove andiamo?” “Eh! Abbiamo una seratona a Milano, al mitico Four Season, in Via Montenapoleone, roba grossa…”
“Che roba?” “Laviamo i piatti! Sciacchelo! È un bel matrimonio, di quelli da ricchi e per fare un po’ di musica ci imberretteremmo due fette. Non fare quella faccia incredula, credi che ti racconti delle musse? Si sposa la figlia di un grosso importatore di sistemi industriali. Erano in albergo quest’estate, a Santa Margherita. Tu non li hai conosciuti perché andavi a farti i cazzi tuoi a Rapallo ed io me la dovevo vedere da solo e me li sono lavorati per bene, al punto che lui, il padre, quello che caccia il grano, stravede per me più di tutti. Non te l’ho detto finora perché sei uno stronzo e non te lo meriti, ma già da luglio siamo d’accordo, per quella gente sono un mito, lui sin dal primo giorno mi guardava ammirato mentre mi davo da fare anche mezzo sciancato. Sai come sono i milanesi, gli piacciono quelli che gettano il cuore oltre l’ostacolo. Alla fine mi ha detto: “Lei deve assolutamente esibirsi al matrimonio di mia figlia!” Insomma, me lo ha menato tanto che gli ho chiesto due milioni, e sono pure pochi, potevo chiedergli il doppio, ma è pure vero che non so suonare un cazzo ed è meglio non esagerare. E oltre noi ci sarà anche una cantante, una certa Shana, americana di colore, pare che sia brava e anche tanto figa. Insomma, debuttiamo ad alti livelli. Ma il vero affare che faremo verrà dopo, ti dirò tutto a suo tempo…”.
Ero senza parole. Ludo architettava progetti e mi ci includeva senza dirmelo, salvo poi annunciarmeli all’improvviso, come fossi al suo servizio. Gli osservai risentito: “Potevi dirmelo. Se avessi avuto un impegno?”. Lui rise di scherno. “Che, mi fai l’offeso perché non te l’ho detto subito? E che impegno puoi mai avere! Una lezioncina da 25.000 lire alla parrocchia? O magari Paganini ti ha trovato una seratina in qualche casa dove va a vendere i suoi pianoforti dell’anteguerra? Non mi dirai mica che, per questione di principio, rinunci a una milionata! Non ci credo nemmeno se lo vedo!”. S’intende che accettai, ma ero sempre più innervosito per il comportamento misterioso e fuori d’ogni regola di Ludo. Pensavo a suo cognato, quella sua taciturnità diventava man mano più eloquente. Ma lui era sempre così tranquillo, come se avesse agito nella maniera più normale. “Allora, domani alle nove trovati in piazza Paolo da Novi”. “Di mattina?” “No di sera! Sei scemo veramente!”. “Hai detto che il matrimonio sarà di sera, perché partire già alle nove di mattina? Milano non è poi così lontana! E poi perché proprio in Piazza Paolo da Novi?”. Ludo mi guardò sornione e mi disse: “Lo vedrai, pulcino. Tu presentati e non te ne pentirai”. Quando il giorno dopo arrivai puntuale sul luogo dell’appuntamento, rimasi di sasso nel vedere Ludo che aveva già cominciato a trasbordare tutta la nostra strumentazione, completa d’impianto luci, dalla sua Renault Espace su un enorme furgone, sul quale aveva già sistemato altre due casse enormi e due spie. Gli chiesi dove mai avesse preso il furgone e tutta quell’altra roba e lui mi spiegò che l’aveva affittata, ci voleva, perché avremmo suonato su un palco grande: “Senza una coreografia adeguata sembreremmo cento lire in un campo da bocce e poi anche per far vedere all’imprenditore milanese, a questa fantomatica Shana e a tutta la gente del Four Season, a cominciare dal direttore, che non siamo due scappati di casa”. “Ma affittare tutta questa roba costa, quindi non guadagneremo un milione a testa!”. Osservai deluso e Ludo fece una smorfia di disgusto: “Tu non sei tirchio, sei un insicuro, il che è peggio, perché almeno il tirchio sa accumulare. Sei un perdente e senza lo zio non andresti da nessuna parte. Appendi il vestito a quel gancio e monta a cassetta che ti racconto come guadagneremo molto di più di un milione, uomo di poca fede!”.
Così parlò Ludo e io appesi il vestito al gancio del furgone e poi mi arrampicai sul sedile. Era la prima volta che viaggiavo su un furgone, non mi sembrava vero, decisamente Ludo sapeva come stupire. Il vantaggio era che lui non poteva spingere più di tanto quella specie di palazzo ambulante ed il viaggio risultò quasi piacevole. Ludo cominciò a raccontarmi finalmente cosa da tempo bolliva nella sua pentola: “Quest’estate, con l’imprenditore, dopo che abbiamo parlato per due giorni del grande matrimonio di sua figlia, con il futuro genero sempre presente, un certo Chicco, beato lui, ché manco trent’anni ha già appeso il cappello al chiodo, ha cominciato a frullarmi in mente l’ideona. Perché devi sapere, Pierin, che lo zio Ludo nel mondo del commercio ha sempre precorso i tempi, il mio unico guaio è stato che non ho mai avuto i capitali, se no a quest’ora figurerei tra gli uomini più ricchi del mondo…”. Ero sempre più allibito nel sentirgli proferire quelle parole mentre guidava il furgone in maniche di camicia; ma non gli si poteva obiettare niente, era un fiume in piena.
“Tu non te lo puoi immaginare, perché vivi nel tuo mondo fantasioso, ma sono stato il primo, qui al nord, a fiutare il business delle videocassette pornografiche. Con mio cognato e mia sorella avevamo messo su una ditta organizzatissima. Lei stava in ufficio a contattare i clienti e prendere gli ordini e noi uomini andavamo in giro. Ma io ero quello che vendeva di più, ovviamente, mi scoppiavo questa strada tutte le mattine, partivo alle sette, bel bello, a volte anche alle sei, e dopo Milano mi facevo anche tutto il bresciano e mezzo Piemonte, che ce n’erano di negozi e studi di fotografi che ci compravano cassette. D’estate e d’inverno, con la pioggia e con la nebbia, anche con la neve, non mi fermava nessuno, ma si guadagnava, dopo un anno ci comprammo perfino la barca…”. “Uno yacht?!” “Quasi, era un bel cabinato, a vela, usato ma come nuovo. Lo tenevamo a Noli, ma poi una domenica siamo usciti ed è girato il vento e quel deficiente di mio cognato non mi ha coadiuvato a dovere e siamo andati dritti in sci schêuggi, la barca s’è sfasciata e abbiamo dovuto farla rottamare per un pezzo di pane. E ridi!”. “Scusa, ma m’immagino la scena…”. “Ci mancavi solo tu e sarebbe stato un capolavoro alla Ridolini. Soldi cacciati nella rumenta, bah! Tutto perché mi devo sempre circondare di beline”. “Non dev’essere facile guidare una barca, specialmente se grossa. Ce l’avevate la patente, almeno?”. “Certo, avevamo fatto un esame con un nostro amico che aveva una scuola…”. “Quindi, un esame burletta.” “Pierin, a guidare una barca non ci vuole un cazzo, se sei intelligente, ma, come ti ho detto, non ero assistito dalle persone giuste. Comunque, nonostante queste sfighe, in due anni, grazie a me, perché quei due sono delle amebe, senza farci mancare niente, con qualche miliardo di fatturato, avevamo messo via trecento milioni netti…”.
“E poi?” “Eh, poi arriva sempre il momento in cui incontri il furbo disonesto di cui tu, pure se sei uno che fa il culo ai passeri, ti fidi. Abbocchi all’amo perché lui è il parente dell’amico del tuo amico ed è direttore di una grande banca, lo è davvero, non sta mentendo, sta a Roma da anni, ha un passato irreprensibile e di grande competenza. Ed è lì a cena con te e ti dice che, visto che è anche impelagato con la gente giusta, quei trecento milioni te li può far diventare novecento nel giro di un anno, al massimo due. E tu gli credi perché è possibilissimo, visto che in quel momento lo Stato sta emettendo BOT al 18%, la Milano da bere e Craxi dice: “italiani arricchitevi!”. E la vecchietta tirchia, che ha un miliardo di liquidi da parte, si presenta in banca, mette una firmetta e si prende subito i suoi 180 milioni di interessi, esce e si va a comprare un appartamentino che poi rivenderà a 220 e ci farà quaranta secchi di guadagno, più o meno. Mica male, no? Capisci che c’è gente che in tre anni raddoppiava il capitale solo comprare dei titoli? A quei tempi sembrava veramente di vivere nel paese dei balocchi. Belin, ho conosciuto degli operai che andavano in pensione e giocando in borsa triplicavano la loro buonuscita; e che, non potevo triplicare anch’io i miei sudati trecento milioni, soprattutto con gli agganci giusti? Invece qual furbo è sparito nel nulla e non ho visto più un soldo, e come me un sacco di altra gente. Alla fine lo hanno trovato, ma ormai non aveva più niente, ovviamente sulla carta, è ancora ai domiciliari nella villa in Toscana della sua “compagna”, con quattrocento ettari di parco, piscina, sauna e tutto il resto. Alla faccia mia…”.
“Sì, però non può più uscire!” “E allora?! A parte che c’ha più di sessant’anni, per cui è meglio che stia lì, tanto che cazzo potrebbe fare ormai. Anch’io che non ne ho ancora cinquanta se fossi al suo posto non andrei più da nessuna parte. Guarda qua che schifo, siamo bloccati in coda sulla tangenziale di Milano! Meraviglia!”.
In effetti avevamo impiegato quasi più tempo a uscire dalla tangenziale che ad arrivare fin là da Genova. Ero talmente frastornato dai suoi racconti e da tutto il resto che non mi accorsi che Ludo era uscito a San Donato ed aveva imboccato la strada per Tribiano di Paullo. Ad un tratto svoltò in viale alberato discreto dove, al di là di una lunga cancellata, sorgevano vari capanni industriali simili a piccole villette, uno dietro l’altro. Sempre con la sua solita sicurezza, Ludo parcheggiò il furgone davanti a uno di quei capanni, prese la sua valigetta di metallo, suonò il campanello e subito ci fu aperto. Era atteso da un tizio taurino, dall’aria seria e professionale al quale consegnò una copia dei “Grandi Successi Volume 1” e la cassetta DAT su cui erano rimaste incise le canzoni. Consegnò anche dell’altro materiale, cartaceo e fotografico, ben riposto in una busta, di cui quel tizio prese una sommaria visione e ci assicurò che il lavoro sarebbe stato ultimato e consegnato al massimo entro tre settimane. Ludo a quel punto trasse dalla valigetta un’altra busta e la consegnò a quel tizio e lui gli strizzò l’occhio e se la mise nella tasca interna della giacca. Solo dopo mezz’ora, quando ormai eravamo prossimi ad entrare in Milano, Ludo mi confermò quel che avevo intuito, cioè che eravamo stati in una casa stampatrice di CD dove avrebbero confezionato a regola d’arte mille copie del nostro primo CD, però sulla copertina sarebbe stato stampato il logo della ditta del grande imprenditore milanese: “L’ideona è di farne una strenna natalizia da regalare a tutti i clienti della ditta. Pensa se vendessimo mille copie per ogni ditta d’Italia…”.
Così concluse Ludo, strizzandomi l’occhio. Ma io non ero tutt’altro che rassicurato e gli obiettai: “Ma allora avremmo dovuto lavorare meglio! Quella registrazione è improvvisata, non sapevamo, ci sono troppi difetti e …”. Ludo fece un gesto di fastidio con la mano per zittirmi: “Ma che cazzo dici, va ben cuscì, tanto quel disco non lo ascolterà nessuno”.
La sua convinzione mi gelò e replicai: “Non credo, almeno il grande imprenditore lo ascolterà, dal momento che dovrà pagarlo, e ci faremo una brutta figura! Non ci costa niente rifare un’altra registrazione, questa volta la cureremmo al dettaglio…” “Ma non ne ho voglia! Senti, Pierin, tu di commercio non te ne capisci, per cui ascolta lo zio, così ti fai almeno un’ideina. L’imprenditore è innamorato. Non di me, non è mica buliccio, voglio dire che gli ho fatto venire in mente chissà che situazione che lo mette in sollucchero tutte le volte che mi vede e mi pensa. Non ti so dire perché ma non me ne frega un cazzo di saperlo, so solo che è così e mi basta. Anche quando vendevo i folletti, il Dash, o le case, ad un tratto mi accorgevo che chi mi stava di fronte ad un tratto era in soggezione e potevo convincerlo di qualsiasi cosa. È allora che devi cogliere l’attimo, ché poi la soggezione passa e addio vendita. Quando fui assunto da una grossa azienda americana mi fecero un corso fantastico su come si deve parlare in questi casi, senza troppe parole, per arrivare al dunque, cioè per far credere al cliente di aver bisogno assoluto di quella cosa e di doverla comprare. È così che funziona anche la pubblicità, c’è tutta una scienza e credimi, è l’unica cosa che abbia studiato in vita mia, oltre al calcolo delle probabilità, e l’ho studiata così bene che non posso sbagliare. Perciò fidati, considera il nostro disco già venduto, non c’è bisogno di mettersi là a fare gli scemi un’altra volta, è tutto bene inciso sulla cassetta DAT, che non vola una mosca, abbiamo perso anche troppo tempo per quello che ci guadagneremo”.
“Ma quanto guadagneremo?”. Ludo non rispose, anche perché ormai eravamo in Via Monte Napoleone, con una manovra da camionista esperto svoltò in Via Gesù e la serranda del garage si aprì come per incanto. Anche nel mitico Four Season eravamo attesi: nel vasto garage c’erano già due uomini di fatica che subito ci aiutarono a scaricare l’attrezzatura e a caricarla nel montacarichi. Entrai anch’io in quel gabbione di ferro che salì con una lentezza esasperante, mi stava quasi venendo una crisi di panico, quando di colpo mi trovai in un luogo da fiaba. In un angolo dell’immenso salone, ancora in allestimento ma già elegantissimo, tutto addobbato e profumato di fiori, c’era un tavolo apparecchiato per noi. Di tutti i camerieri che andavano a passo svelto avanti e indietro, uno ci fece accomodare e ci servì dell’acqua e dei sandwich deliziosi, e solo quando ne addentai uno mi accorsi che ero quasi prossimo allo svenimento. Il palco era immenso davvero e sistemammo tutta la nostra attrezzatura nel modo migliore e provammo le luci colorate. “Ludo, adesso dovremmo poter fare una doccia e riposare.” Gli dissi e lui rise di scherno. “Ma sì, magari ci danno pure la suite superiore e ci facciamo mandare due fighe a passarci lo spazzolone sulla schiena, che ne dici, ti può andare bene? Ma che cazzo farnetichi, noi siamo soldati, Pierin, mica siamo venuti qui a svernare. Vatti a vestire nel cesso e datti una pettinata e vedrai che sarai un ragazzo splendido”.
Obbedii di malavoglia, sentivo di non avere più energie, ormai si erano fatte le quattro del pomeriggio, era dalla mattina alle nove che eravamo in giro. Soprattutto mi preoccupava la faccenda del CD, quell’imprenditore ci avrebbe riso in faccia solo che ascoltando le prime battute della mia versione di “Champagne”, dove avevo cantato in modo incerto e Ludo aveva detto che quell’incertezza “ci stava fin bene”. Quando tornai nel salone lui era già là, ma a momenti non lo riconobbi: indossava un frac. “Sembri Gastone!” gli gridai sempre più agitato. “Devi dire sempre scemate, tu. Avanti mettiti alla tastiera che proviamo tutti i suoni”. Fu allora che ci si avvicinò un’avvenente ragazza di colore, con i capelli radi e corti. Ludo, per niente intimidito, l’accolse cantando: “Quando ti ho vista arrivare, bella cuscì come seeei! Nun me paeva pussibile! Eccola qua, la nostra cantante, che si presenta quando abbiamo già montato tutto l’ambaradero, ci mancherebbe che dovesse alzare solo che un’asta microfonica!”. Lei sorrise sfrontatamente, senza imbarazzo: “Tu devi essere il magico Ludo.”. “E scì, e quello è Pierin, si vede dalle facce, nevvero? Senti un po’, Grace Jones, cantami “La vie en rose”, che ti accompagna Pierin, le sa tutte, in qualunque tonalità.
Shana salì sul palco con movenze feline, come se avesse compiuto quei gesti migliaia di volte, nonostante la giovane età, mi si piazzò di fianco e mi disse che “La vie en rose” la faceva in do ed io attaccai e fu un’emozione, ché non avevo mai partecipato a produrre un impasto musicale così di alta qualità. Ma mi fu difficile rimanere serio, perché intanto Ludo aveva tirato fuori da chissà dove una bacchetta da direttore d’orchestra e si era messo a dirigerci. “Non dirmi che vuoi fare questo stasera!”, gli gridai incredulo alla fine. “E cosa avevi nel belino, che mi mettessi a far finta di suonare? Così faccio più scena e non mi voglio perdere l’occasione di dirigere cotanti artisti!”. Shana mi chiese come mai uno come me andasse in giro con uno come Ludo ed io evitai di ribattere, ma intanto ci ripensavo per l’ennesima volta e non trovavo la risposta. Poi arrivò il direttore e spiegò a Ludo dettagliatamente i tempi di tutta la serata e Ludo annuiva in modo così plateale che mi domandavo come facesse il direttore a non accorgersene o, nel caso se ne fosse accorto, a rimanere così calmo.
Alle sei e mezza arrivarono gli invitati. Finché non lo vidi non ci avevo creduto, ma Ludo ci diresse davvero a bacchetta e il padre della sposa era entusiasta di ciò, ma poi pretese che cantasse almeno due canzoni di Fabio Concato e Shana fu costretta a scendere dal palco per lasciargli tutta la scena e parve proprio che l’unica attrazione della serata fosse Ludo. La festa andò avanti fino alle due del mattino, poi Shana, mentre cominciavamo a smontare, ci salutò e si avviò verso le camere assieme ad un giovane invitato, mano nella mano. “Vedi, com’è la figa? Alla fine della serata si trova uno e ci va a becciare e a noi tocca smontar tutto. Perciò di donne nell’orchestra non ce ne voglio, a meno che non beccino con me, perché fanno solo dei casini. Facciamo alla svelta, Pierin, non voglio arrivare a Genova alle otto del mattino”.
Sorgeva l’alba quando mi ritrovai a letto. Spegnendo l’abat-jour diedi l’ultima occhiata ai cinque biglietti da 100.000 lire che avevo depositato sul comodino: non sapevo ancora dire se fossero troppi o troppo pochi per tutta quella sfacchinata. Di certo sarebbero subito volati via, c’era da pagare la rata della macchina di 300.000 lire e poi si avvicinava Natale, le altre 200.000 le avrei tenute da parte per l’assicurazione e il bollo. E i regali? Ah, ma il grande imprenditore milanese ci avrebbe pagato il CD! Ma davvero non ci avrebbe tirato i dischi in testa. E quanto aveva in mente di chiedergli Ludo? Erano già d’accordo? Più volte durante il viaggio glielo avevo chiesto, ma Ludo aveva sempre cambiato discorso. Dannati soldi. Perché non si poteva vivere senza? Sarebbe stato tutto più… umano.
In passato c’erano state grandi civiltà che ne avevano fatto a meno. Ah, ma questo è il genere di riflessioni in cui si perde soltanto chi si cala così tanto nello studio della storia e della filosofia, da perdere completamente la cognizione del proprio tempo. Ed io, probabilmente, invece di calarmi in toto nella musica che mi dava il pane, mi ostinavo ad immergermi negli studi di storia e filosofia per avere la sensazione di poter fuggire da un’epoca in cui non mi ritrovavo. Non ero un filosofo, ma un musico, padre di famiglia, che viveva nella società moderna, dove il denaro era il dio che muoveva tutto, al quale tutti eravamo costretti ad inchinarci. E anch’io, pur nel mio delirio filosofico, mi trovavo costretto ad ammettere che se non ci fossero state quelle cinque banconote da 100.000 lire sul ripiano del comodino, di tutta quella surreale giornata che avevo vissuto non sarebbe rimasto altro che un agitato e confuso ricordo. Era incredibile, ma quei maledetti soldi davano un senso a tutto. E C’era sicuramente qualcosa di divino anche nel denaro, evidentemente sì che era strana la vita: si andava avanti come si poteva nella lotta spasmodica per la sopravvivenza e alla fine arrivava il momento in cui si moriva… E non era nemmeno detto che finisse là, magari la lotta continuava all’infinito e chissà in che forma.
Dopo un mesetto ci recammo a Segrate, nella grande azienda dell’imprenditore. Lo trovammo ad aspettarci sulla soglia dell’ingresso degli automezzi. Ritto in piedi, braccia conserte, impeccabile nel suo completo fumo di Londra, i baffi ben pettinati, ci guardò con uno sguardo d’aquila che però si fece subito dolce non appena vide Ludo. Era veramente innamorato, in quel modo complesso che Ludo aveva descritto in modo nebuloso e colorito e che ora a rivedere quell’uomo mi dava da pensare. Pensai che noi musici conoscevamo gente sempre nello stato di ebbrezza, dunque non certo come si mostravano nella loro quotidianità. I bar, i ristoranti, gli alberghi, erano luoghi in cui si viveva in una dimensione dionisiaca, a pensarci bene. Ma anche quando la gente ci incontrava in pieno giorno, e nel proprio ambiente, subito si riconnetteva con quell’atmosfera. L’imprenditore ci accolse con amor sincero e ordinò con durezza a due suoi operai di scaricare dalla Renault di Ludo i dieci pacchi di cento copie di CD ciascuno che avevamo ritirato un’ora prima nell’azienda di Tribiano di Paullo, e li fece portare direttamente nel magazzino. L’azienda era enorme e c’era un via vai di operai all’opera, giravano tra le cataste di merce imballata, a bordo dei muletti, spostavano, caricavano. L’imprenditore prese un CD e lo liberò dal cellophane ed io mi misi a tremare pensando che volesse ascoltarlo; invece si preoccupò solo, tra l’altro con molta attenzione, che i loghi dell’azienda fossero stati stampati come si deve. Poi salimmo nel suo ufficio, dove sulla bella scrivania dal ripiano di pelle verde scuro era già stato preparato un assegno.
L’imprenditore impugnò la sua bella stilografica nera e disse a Ludo con un certo tono complice: “Mi aveva detto quindici milioni più IVA, vero?”. Ludo annuì senza battere ciglio, le sue mani erano assolutamente ferme. Io invece tremavo più di prima. “Le spiace se facciamo 14.500 più IVA?”. Mi voltai di scatto verso Ludo e vidi le sue labbra schiudersi e proferire: “Non ci butteremo giù da un ponte per 500.000 lire”. L’imprenditore sorrise sotto i baffi e vergò sull’assegno le cifre e la sua firma, con scatti decisi, quasi con rabbia.
A quel punto Ludo mi fece un cenno ed io, senza dir nulla, tirai fuori il mio libretto delle fatture. Era la prima volta che compilavo una cifra così alta, avevo una paura folle di sbagliare. Ludo non mancò di rilevare il mio impaccio e rimarcarlo e disse ironico al nostro interlocutore, indicandomi con un cenno del capo: “Lo scusi, sa, è ancora un po’ imbranato il ragazzo. Ma poi è bravo”.
L’imprenditore annuì con sguardo complice. Finalmente parlai anch’io: “La ragione sociale la mettono loro?”. L’imprenditore prima trasalì di meraviglia, poi annuì rassicurante e disse a Ludo: “Gli imbranati siamo noi, non il suo socio”. Sollevò la cornetta del telefono, schiacciò un tasto e quando si udì il click dall’altra parte, proferì con tono autoritario: “Chicco, ti spiacerebbe venire su e portarmi un timbrino?”.
Suo genero arrivò immediatamente, tutto trafelato e rosso in viso, ché aveva salito di corsa la scala di ferro. Salutò timidamente, posò il timbrino sulla scrivania e suo suocero gli ordinò di tornare subito giù a lavorare. Ludo mi guardò come a dirmi: “altro che appendere il cappello al chiodo” ed io trattenni a stento il riso mentre compilavo la fattura, poi la consegnai al suocero padrone e lui di con un gesto cortese ed elegante mi consegnò l’assegno intestato a mio nome e faticai a rimanere impassibile. Cosa sarebbe successo? “Che vuoi che succeda – mi spiegò Ludo sulla via del ritorno – Quando arriveremo tua banca sarà ancora aperta, ci andremo e lo verserai e ti farai dare sei fette e mezzo in contanti e le darai a me. “Perché sei milioni e mezzo? La metà è 7.250.000!”. “Vedi che sei pollo? Tu hai fatturato, ci pagherai le tasse sopra e una milionata penso che basti per indennizzarti, a meno che per te non siano troppo pochi”.
Gli dissi che secondo me erano troppi e Ludo mi derise di nuovo: “Piuttosto, non avrei mai creduto che fosse tanto pollo lui, davvero mi ero convinto che non si potessero più fare colpi come questi. Anche perché, vedendo come tratta i suoi operai e suo genero, il grande imprenditore non solo ha le antenne dritte, ma è anche una grande faccia di merda. Sono francamente sorpreso”.
Allora ebbi come un’illuminazione: “Ludo, credo di aver capito in cosa consista il suo innamoramento! Si è identificato in te!”. “Ah, grazie del complimento!”. “Ma no! Non voglio dire che sei una faccia di merda, ma che evidentemente hai un qualcosa che gli ricorda sé stesso. Quel qualcosa che sperava di ritrovare in suo figlio, ma ha avuto una femmina e allora sperava in un genero diverso. Mi sembra proprio che non abbia alcuna stima di Chicco e perciò lo provoca, magari spera che lui reagisca e gli dimostri di essere battagliero e invece ottiene l’effetto contrario…”. Ludo mi interruppe. “Il bello è che non ti ubriachi, né ti droghi, almeno per quel che mi risulta. Sei così di tuo. Una mina vagante con le tue cagate psicanalitiche. Meno male che te ne sei stato zitto, mi raccomando fallo sempre!”.
In banca mi dissero che non potevano darmi sei milioni e mezzo in contanti, perché l’assegno era fuori piazza e doveva camminare almeno quattro giorni lavorativi, dunque una settimana circa, visto che era giovedì, ed io avevo sul conto solo 300.000 lire, per cui non potevo coprire un importo così sperequato. Allora Ludo, toccandosi le parti intime, disse al cassiere: “Questi due coglioni. Telefonate pure al bene fondi e prendete tutte le informazioni del caso, ma dovete cacciare il grano, se no lui se ne va in un’altra banca”. “Il signore è il legale del nostro cliente?” lo inquisì il cassiere con un self control invidiabile. “Peggio, sono il suo socio e voglio la mia metà del malloppo” replicò Ludo spazientito. “Allora il nostro cliente potrebbe emettere un assegno in suo favore”. Ludo sbottò: “Non ne parliamo neanche! A me piace il tabacco e lo voglio toccare, sono feticista. Chiami pure il direttore, visto che non sa cosa sia il bene fondi.
Il cassiere rispose piccato che sapeva benissimo cosa fosse il bene fondi, si alzò e si allontanò con il mio assegno in mano. Lo vedemmo che andava a consultarsi con due colleghi, poi arrivò il direttore che ascoltò il suo racconto e ogni tanto lanciava a me e Ludo delle leste occhiate. “Perciò che mi piace andare al casinò, là almeno tutte queste questioni per il grano non ci sono, quando te lo devono dare lo cacciano e te lo danno pure col sorriso, eh…”.
Alla fine ci consegnarono i sei milioni e mezzo tutti in banconote da 100.000 che ludo infilò nella tasca interna della giacca. “Ecco, così se mi sparano al cuore mi salvo” disse quando finalmente fummo fuori dalla banca ed io chissà perché avevo la sensazione che l’avessimo rapinata. “Comunque, non era una cattiva idea quella di farti un assegno”. “Sei matto? Io non ho il conto in banca, non posso averne ancora per tre anni, per colpa di quel furbo che mi ha fregato e mi ha mandato fallito. Ora capisci Pierin, perché ti ho dato quella milionata? Così, oltre alle tasse ci paghi lo scoperto di qualche giorno; sono belinate, però come vedi lo zio Ludo pensa sempre a tutto. E adesso veniamo al nuovo affare…”.
Trasalii: “Un altro CD?”. “Sì, questo è un matto di Genova, mi chiedo come possa fare l’avvocato. È presidente di una fantomatica associazione che si propone di restaurare la Repubblica di Genova. Dicono che non ci fu il plebiscito e che la Liguria è stata annessa al regno sabaudo e quindi ora si batteranno perché diventiamo come San Marino. Ti dirò che non mi starebbe nemmeno male, ma siamo in troppi. Gliel’ho detto e loro hanno risposto che stanno giusto pensando di sfoltire la popolazione. Insomma, sono matti. Pensa te, vogliono togliere il monumento da piazza Corvetto perché Vittorio Emanuele fece sparare sui genovesi e vogliono pure chiedere i danni alla Francia per i quadri che si è portato via Napoleone. Sono fuori di testa, ma ciò è bene per noi, perché vogliono che gli componiamo l’inno… Sì, caro Pierin, l’inno della Repubblica di Genova, dobbiamo metterlo su un CD e farne mille copie. Gli ho chiesto cinque milioni, però subito cash e senza fattura e quello ha accettato, avresti dovuto vederlo, ha subito ordinato al segretario, un tizio che avrà come minimo ottant’anni: – Segretario, scriva! Mettiamo a verbale che il presidente, nel pieno delle proprie facoltà e dei suoi poteri, ha deciso di affidare alla “Ludo & Pierin Productions”, dico bene, la composizione dell’inno della nostra gloriosa Repubblica di Genova e di stamparne per il momento mille copie, che pagheremo alla consegna con cinque milioni in contanti!”.
“Ma come, senza fattura?!” chiesi già deluso, perché mi sarebbe piaciuto certificare un altro buon guadagno. Ludo replicò con una certa impazienza: “No, che fattura! Mi ha detto che li fanno uscire di straforo, ché tanto le associazioni non le controlla nessuno e a Roma ladrona non vogliono dare nemmeno un centesimo. Meglio”.
Andammo in studio e Ludo subito compose il testo. Il titolo su cui lavorare ce lo avevano fornito loro: “Un popolo, una bandiera”:
“La storia ce lo insegna e non è giusto / dimenticare chi prima di noi / ha combattuto per ottenere il fasto / grandi navigatori, grandi eroi. / Allora sì che al mondo si contava / Repubblica di Genova mai schiava / uomini veri, senza contraddizioni, / conquistatori di terre e di galeoni. / Oggi, ancora più di ieri / abbiam bisogno di uomini veri / condottieri della nostra storia / per ritrovar ricchezza, onori e gloria. / E quando il sole poi tramonterà / la luce della lanterna ci guiderà! / Un popolo, una bandiera, armati di gran volontà, / lavorando, da mane a sera, la Repubblica risorgerà, / lo scudo, bianco-crociato, vorrà dire libertà, / Repubblica di Genova, più forte trionferà!”
Avrei voluto avere più tempo a disposizione per comporre la musica, ma Ludo disse di spicciarmi ed io impostai sulla tastiera il ritmo “march” e inventai sul momento una marcetta che cominciava in tonalità minore per sfociare in maggiore nel ritornello. E anche se il ritornello ricordava nemmeno troppo vagamente la celebre “Andò vai se la banana non ce l’hai”, il presidente fu entusiasta sin dalle prime battute e gridò all’ottuagenario segretario: “Scriva! Finalmente abbiamo l’inno!”.
Così, Ludo ed io tornammo a Paullo con tutto l’occorrente e dopo tre settimane il disco fu consegnato e intascammo i cinque milioni come convenuto.
Ma non era finita: il presidente ci obbligò a partecipare alla riunione di presentazione dell’inno, in un ristorante di Palazzo Ducale. Naturalmente c’era la cena e anche per quella sera non avremmo gravato sul bilancio familiare e questo pure era buono. Il presidente arrivò alla fine, perché, a suo dire, era stato a colloquio con il sindaco fino a quell’ora.
Al suo ingresso tutti ci alzammo in piedi e ci fu un applauso entusiastico. Lui ci fece cenno di calmarci e gridò, con tono solenne: “Ho detto al Sindaco che per prima cosa vogliamo espellere dalla Repubblica tutti i terroni!”. Tutti gridarono “Hurrà!”. E Ludo mi guardò e mi disse “Ma tu non sei nato a Campobasso?”.
Annuii e lui rise: “Se quel matto sapesse che ha appena dato cinque fette a un terrone che ha musicato l’inno della Repubblica di Genova non credo che ne sarebbe tanto contento, ma noi mica glielo diremo…”.