Decimo appuntamento con il musicista Piero Trofa. Come già spiegato, non è una collaborazione musicale, ma da scrittore. Trofa è molto conosciuto nell’ambiente dello spettacolo, ed è autore di colonne sonore per documentari e spot pubblicitari, ed insegna musica in scuole pubbliche e private.Alla musica si dedica completamente, sempre con grande attenzione agli aspetti formativi e alle connessioni che esistono tra musica e filosofia, la sua grande passione. Dal 1998 è presidente dell’Associazione Musicale Centro di Documentazione e Produzione Musicale “Ettore Panizza” con la quale organizza concerti ed eventi culturali in Italia e all’estero. In questo suo decimo racconto ci narra quando andò a suonare, assieme all’amico Ludo e ad altri, in un locale di Piazza Tommaseo…
Franco Ricciardi
Ludo mi diede appuntamento alle nove di sera “dal pisciatoio”, cioè davanti al locale “Gli anni belli”, in piazza Tommaseo, dove aveva suonato ai tempi in cui non eravamo assieme finché era fallito.
Da allora il locale era rimasto chiuso ma ora lo aveva rilevato una certa Gesualda, detta Gesy, nata in Sicilia e da tempo trapiantata in Genova: “Ma per come parla sembra sbarcata oggi” mi disse Ludo ridendo di scherno. Non ero mai entrato là dentro e non avevo alcuna voglia di entrarci, sapendo che era stato un pisciatoio, m’immaginavo che ci fossero ancora le coppe appese al muro.
Di solito noi musici di serie C ci sentiamo dire, in alcuni casi anche con una punta d’invidia: “Sei fortunato, fai un lavoro che ti piace!”. Bene, a tutti costoro voglio dire che in realtà il nostro “lavoro” ci piace solo se possiamo svolgerlo a modo nostro; ma ciò non si verifica mai, perché nei locali la gente viene più per mangiare e bere che per ascoltarci e noi siamo al servizio del titolare, il quale considera la nostra arte uno dei componenti della sua attività e non certo il più importante. Perciò, chi non è dotato di spirito di servizio è meglio che non faccia il pianobar e si sforzi in tutti i modi di diventare un musico di serie A.
Tutto questo mi dicevo quella sera e pensavo anche che se quel fallimento non ci fosse stato io e Ludo non ci saremmo mai incontrati e avrei vissuto solo con le lezioncine alla parrocchia, oppure chissà cos’altro ancora mi sarebbe successo. Intanto guardavo la luce gialla fioca proveniente dalla porta stretta che si apriva nell’angolo sul lato sinistro della grande fontana della piazza.
“Non entriamo?” chiesi a Ludo sperando che mi dicesse che la voglia di tornare a suonare agli “Anni belli” gli era già passata. “Dopo, aspettiamo Ennio” mi disse lui guardando altrove, anche lui assorto in chissà quali pensieri, mentre fumava l’ennesima sigaretta. “Chi è Ennio?” insistei, ché quella vista e quel silenzio pieno di attesa mi angosciavano: “Uno che fa l’avvocato, che però ha il vizio di andare alla sera a cantare nei locali, invece di starsene a casa a trombarsi la moglie”. “Ah, avvocato, come Paolo Conte.” osservai incuriosito e Ludo si voltò finalmente a guardarmi, e a sorridermi sardonico, poi replicò: “Sì, però Paolo Conte ha fatto il grano sia come avvocato che come cantautore, mentre Ennio è uno come noi, cioè un perfetto nessuno, anzi, mi sa meno di noi, ché noi, che siamo nessuno, almeno non ci sogniamo di cagare fuori dal bulacco. Vedrai invece come se la tira, neanche fosse Pavarotti. Fammi capire: di giorno fai l’avvocato e di notte vai a cantare agli “Anni Belli”? E magari ti fai pure pagare qualcosa meno di me, tanto per far fuori la concorrenza qualificata? Allora mi sa che due sono le cose: o sei un avvocato delle cause perse, oppure hai smanie di protagonismo, cioè sei malato nella testa. Oppure l’uno e l’altro. In ogni caso, vieni a cagare il cazzo proprio a me che lo faccio di mestiere e son qua a contarmi gli spiccioli. Chissà come mai quest’improvvisa fioritura di grandi talenti finora inespressi, mi chiedo dove stavano intanati fino a qualche anno fa. E lo so: è che a leggere le parole sullo schermino son capaci tutti. Io invece sono trent’anni che vado in giro a fare serate. Ho cominciato da pivello, negli anni sessanta, suonavo la chitarra ritmica e cantavo, non ero Carlos Santana, ma studiavo, ero preciso, le accompagnavo tutte con gli accordi giusti, mi ero fatto un libro con tutto scritto per benino, sembrava stampato; e guai a perderlo, quando finiva la serata ci stavo molto attento a non farmelo ciullare, ché dal palco spariva sempre qualcosa. Quelli si che erano anni belli! Dovevi vedermi, pulcino, con la bella cinta della chitarra nera e la camicia di raso rossa e il papillon… Ero una meraviglia! Giravamo per tutte le contrade, da levante a ponente, ogni stagione, e d’estate arrivavamo a fare fino a tre servizi al giorno: c’erano le merende, ogni scusa era buona per mangiare, ballare e becciare. Belin, erano tempi d’oro per i musici, prendevamo dei gran soldi, altro che le merdose 100.000 lire di ora, avevo sempre la stacca piena! Il capo orchestra era un personaggio, lo chiamavamo Il Babbo: era emiliano, appena vedeva una figa non capiva più niente, se le sarebbe trombate tutte, mai che ne avesse discriminata una. Una sera eravamo non so dove e mentre cenavamo gli si venne a sedere vicino una tizia che pesava come minimo cento chili. E Il Babbo la guardava in tutta la sua estensione e le sorrideva confuso, proprio non riusciva a trovare le parole per farle un complimento, ché la poverina non aveva proprio niente di bello. Ma lui là che la squadrava da capo a piedi, ci metteva tutta la buona volontà, e più di tutto le guardava le braccia scoperte e sul sinistro c’erano le cicatrici della vaccinazione, grosse come due budini.Il Babbo sembrava incantato e ad un certo punto, dopo averci pensato e ripensato, le disse: “Veh, ma che belle vazzine che hai!”. Da morire dal ridere! E anch’io mi davo da fare, non c’era sera che non ne rimorchiassi una, perché oltre al fatto che ero un ragazzo meraviglioso, c’era tutto un clima di allegria, le donne erano ben disposte, anche le tardone, venivano apposta in cerca di belino, sai com’è, “peace & love”. Era una festa, si becciava senza alcun impegno. Dal palco individuavo la pulcina che ci stava, guardava sempre me, non potevo equivocare, e alla fine saltavo giù, la prendevo per mano e andavamo ad infrattarci dove capitava. Ma una sera ero lì che stavo sopra di lei e ci guardavamo negli occhi, a momenti mi innamoravo, quando ad un tratto mi disse: “Se me lo mettessi pure davanti sarei più contenta”. Ma guarda te, non me l’ero mica data, ti dico che non c’era differenza! Comunque, pure era una fatica, non credere, roba che prima di rientrare in casa mi levavo la camicia e la strizzavo come uno straccio, tanto era sudata. Ma becciavo anche quando non ero a suonare, con il lavoro che facevo non mi mancava certo l’occasione. Alla mattina andavo in giro a vender folletti per le case e alla prima occhiata capivo se la signora era trascurata dal marito…”.
Eccolo, il flusso di coscienza di Ludo. Era compulsivo, una volta che partiva non riusciva più a fermarsi.
“Organizzavamo delle festicciole nella casa di vacanze di un amico, a Laigueglia, e quando le ragazze arrivavano ci facevamo trovare già in miande. Mettevamo nel mangiadischi sempre “Je t’aime moi non plus”; avevamo la versione non censurata, era la migliore per creare un’atmosfera coinvolgente, ogni volta che finiva chi si trovava ci dava una manata e la rimetteva. E allora chi si appartava in una stanza, chi in un’altra, chi nel corridoio, chi in cucina, e mentre ballavi stringevi la donzella e cominciavi a metterle le mani da tutte le parti, finché non si arrivava al dunque. Ma una sera me ne capitò una che ogni volta che provavo a metterle la mano là, me la levava. E una volta e due, alla terza le dissi: perché cazzo sei venuta se poi ti metti a fare la strana? Lei mi spiegò mortificata che in effetti non avrebbe dovuto venire, ché aveva le sue cose. Allora le dissi e vabbè, che sarà mai, qua chiaviamo di tutto! E così si convinse, solo che alla fine sembrava che su quel letto avessero scannato qualcuno e quando entrò il mio amico si mise a gridare: belin, ma siete matti, questo è il letto dei miei, tra due ore tornano! Cambiammo le lenzuola ma si era macchiato in maniera vistosa pure il materasso e così lo portammo sul terrazzo e cercammo di pulirlo con uno spazzolone.
“E poi?”. All’improvviso mi era balzato il cuore in gola, come se quella sera Ludo avesse davvero scannato qualcuno. Lui continuò divertito: “Il lavoro non venne benissimo, ma meglio che niente, dopo aver rimesso tutto a posto ce ne andammo. Il nostro amico poi ci riferì che i suoi nell’immediato non si erano accorti di niente e si erano messi a dormire su quel letto come al solito e avevano spento la luce. Ma dopo un po’ avevano avvertito l’umido nella schiena ed erano andati a svegliare il figliuol prodigo e a chiedergli spiegazioni in merito e lui aveva fatto lo gnorri e sul momento se l’era cavata, sia pur destando qualche perplessità. La mattina dopo, però, quando suo padre era uscito per buttare la rumenta, il vicino gli aveva raccontato che ci aveva visti mentre lavavamo il materasso sul balcone e così avevamo dovuto dire addio alla casa a Laigueglia…”.
Quel fiume di parole mi trascinava, guardavo le chiome degli alberi stormire nella notte e mi pareva quasi che quelle avventure le avessi vissute io. Il fascino di Ludo era quello, far apparire le cose più prosaiche come qualcosa di grandioso. Potenza delle parole, tra tutte le arti e i mestieri aveva mancato anche quello di scrittore. “E quando andai ad aggiustare l’impianto elettrico in un convento? Belin che storia quella!”.
“Ah, hai fatto anche l’elettricista!” “No, ma non ci vuole un cazzo ad aggiustare un impianto elettrico, se sei intelligente. L’elettricista era un mio conoscente e aveva preso quel lavoro e un altro assieme e non ce la faceva a seguirli tutt’e due, così mi disse che al convento potevo andarci io e ci andai, perché la madre badessa pagava bene e anche se quello stronzo voleva la cragnotta, ne valeva la pena. Lavorai là dentro una settimana, da mane a sera. Era bello, si mangiava bene al refettorio, mi piaceva molto il minestrone, la sorella ci metteva dentro anche il pesto di Pra autentico. E man mano che passavano i giorni notavo che la madre badessa si faceva sempre più confidenziale, chiaramente a modo suo, puoi immaginare, sempre a farsi il segno della croce ogni tre frasi, e mi pareva proprio che volesse qualcos’altro oltre all’impianto. E infatti proprio l’ultima sera mi fece la proposta di salire su, in camera sua, per dare un’occhiata ad un’applique che locciava. Non potevo perdere un’occasione così, quando mai ti capita di becciarti una madre badessa, al mondo si vive una volta sola. Belandi, quando ripenso a quel saio piegato sulla testiera e al crocefisso appeso al muro bianco mi dico che sono stato un vero asso. Che roba! Gesù, Giuseppe e Maria, mi doni il cuore e l’anima mia! Solo che alla fine non mi volle fare uscire dalla porta principale, diceva che ci avrebbero scoperti e per lei sarebbe stata la rovina. Mi disse che mi dovevo calare dalla finestra che dava sul giardino, come nei film comici. Il problema era che in quel momento stava venendo giù una ramata d’acqua e c’era da camminare per diversi metri su un cornicione stretto stretto che ci stava a malapena la scarpa, per poi scendere giù dalla grondaia. C’era un solo lampione che illuminava lo scenario, solo a guardare il cornicione tutto lucido di pioggia capii che si scivolava di brutto. Cercai di nuovo di convincere la badessa di farmi passare da dove ero entrato, ma non ci fu verso e allora scavalcai e a momenti mi ammazzavo…”.
Il bello è che ogni fatto pareva verosimile, le sue parole mi avvolgevano e stordivano come il fumo della sua sigaretta.
Però Il Babbo resta insuperabile, un vero fenomeno. Una sera arrivammo a Tribogna, c’era una sagra: lui si guardò un po’ attorno e poi disse agli organizzatori: “Mi spiace ma c’è un problema: se non ci date il doppio del pattuito ce ne andiamo”. Quelli sbiancarono e cominciarono a urlare: “belin, ma come sarebbe a dire ve ne andate? Siete delle leggere, ci volete prendere p’a gua!”. E Il Babbo gli rispose: “Lasciando perdere che quando abbiamo parlato al telefono ero ubriaco, è che non credevo mica che ci sarebbe stata tutta questa gente. Diciamolo, senza la musica qui sarebbe un mortorio e siccome avete caricato l’autobus penso che sia giusto che ci diate un ciccinino di più”.
“Belin, ciccinino, vuoi il doppio, bastardu!”. Avresti dovuto vedere lo spavento dipinto sulla faccia di quei tizi. Non avevano scelta, dove la trovavano un’altra orchestrina a quell’ora, per tenere a bada tutti quei contadini che morivano dalla voglia di mettersi a saltare, erano già mezzi inceriti.
“Ovviamente Il Babbo si fece dare tutto il grano in anticipo e facemmo una seratona. Anche se non eravamo eccelsi il nostro lo facevamo, e, ripeto, le suonavamo tutte con gli accordi giusti, guai se sbagliavi una nota, il Babbo ti diceva di tutto alla fine della serata ti faceva la multa, ogni pretesto era buono per tenersi più soldi possibili per andarci a bagasce. Quelli erano gli anni belli! Invece ora il primo scemo che si compra una tastierina e ci infila dentro il dischetto può andare dove vuole. E pure se canta male va bene lo stesso, anche perché, dopo che ne ha cantate due bisogna che cantino gli altri, tutti ormai devono avere il loro momento di gloria, se no mica vengono a reggerti il culo e ti tocca pure di tenergli il microfono come uno scemo. Comunque, ti dirò: è meglio che ci siano le basi, chi ha le ha inventate è un santo, non avrei mica più voglia di studiarle tutte come una volta, per quello che ci pagano, poi!”.
“Ma è proprio perché usiamo le basi che ci pagano meno!” osservai, come colto da un’illuminazione: “Lo vedi che ci sei arrivato anche tu, Pierin? Ma ormai la frittata è fatta, le tastiere coi dischetti esistono e si vendono, mica le possono proibire. I cachet sono scesi inesorabilmente e indietro non si torna. Noialtri mica abbiamo il sindacato, te l’immagini che marciamo tutti assieme verso Montecitorio? Mi viene in mente il ridere. Ma che non ci siano più le orchestrine non è per niente un male, già a suonare in due vengo matto e in tre hai ben visto cosa è successo. Figuriamoci se fossimo in quattro o cinque, ci sarebbe da rattellare tutte le volte, per carità. Mi sa che torno a suonare da solo…”.
Ero certo che non lo avrebbe mai fatto. Troppo forte era per lui l’esigenza di essere guardato mentre agiva e ascoltato mentre ricordava ad alta voce. Forse solo per questo aveva voluto sempre al suo fianco un socio. Mi sembrava molto probabile che con quei salti nel passato cercasse di ritrovare un senso nella propria esistenza. Oppure, cosa ancora più probabile, cercava la conferma che la sua vita fosse speciale, soprattutto in certe circostanze mi era parso come terrorizzato dall’idea che non lo fosse. Per lui la vita normale era intollerabile e la vita normale era quella povera; perciò derideva i camerieri attaccati ai loro sudati risparmi, specialmente quando li vedeva che si spartivano le mance che gli avventori avevano lasciato nel bicchiere. “Io mai pezzente sarò, un salto come un gatto farò e ricchissimo diventerò!” così si chiudeva la sua canzone, intitolata “Devi credere in te”. “Prima o poi verrò ricco, vedrai.”.
Mi diceva spesso, all’improvviso, come se si fosse appena ridestato da un sogno ad occhi aperti. Lo sarebbe diventato davvero? A volte avevo la forte sensazione che i suoi sogni si sarebbero avverati, altre invece mi pareva più che evidente che le sue parole tradissero la proterva illusione di un uomo con le spalle al muro che cercava di scacciare con cinismo il terrore per il fallimento, il decadimento fisico e la morte. “A che pensi, filosofo Pierin?” mi chiese ad un tratto ed io trasalii confuso sotto il suo sguardo indagatore. “Allora non dobbiamo fare il gruppo con Ennio, avevo capito che…”. “No, ti dico com’è. L’altra sera sono andato al circolo “Serenissima”, in Piazza della Vittoria, perché conosco il presidente, sono anni che gli do delle scianche al biliardo e ogni tanto mi piace andargli a menare il belino. C’era la cena sociale e il ballo, erano tutti in ghingheri e sul palchetto a cantare c’era Ennio assieme al suo socio, un certo Mimmo, che suona il basso e pure canta. Ma era un pianto, musica dal morto, altro che dal vivo, quei due suonano tutte canzoni recenti in inglese e là sono tutti vecchi, vogliono sentire “Fiorellin del prato”, ballare il tango e la mazurka. Che poi, mi dici a che cazzo serve suonare il basso sopra le basi? Bubum e bubum, quel Mimmo non ne fa una giusta, ti viene il mal di testa. Ennio invece suonava la tastiera, cioè faceva finta di suonarla, buttava dentro il dischetto e via, tanto quei boccaloni mica se la davano, gli facevano pure i complimenti, “avvocato, ma lei è un fenomeno, sembra un’orchestra!” e lo credo! Il furbo sai che cosa faceva? Ogni volta che finiva un pezzo, toglieva il silenziatore dalla tastiera e suonava l’ultimo accordo, così pareva che avesse sempre suonato”.
“Ah, ma se mette gli accordi un po’ sa suonare…”. “Ma non dire delle belinate, Pierin! Se quello è suonare io sono Frank Sinatra! Del loro magico duo avevo sentito parlare, ma non li avevo mai visti all’opera e ti dico che Otto & Bernelli fanno ridere di meno. Tra l’altro, Ennio era emozionatissimo, manco fossimo stati al “Metropolitan”. Direi più insicuro che emozionato, perciò si porta quell’altro sciacchèlo appresso, che però non lo supporta come si deve, è come avere a fianco un manichino, tu al confronto sei uno show man. Allora sono salito sul palchetto per tirar su le sorti della serata e ho chiesto gentilmente a Ennio se me ne faceva cantare due e lui mi è sembrato subito sollevato, si vedeva che proprio disperava di riuscire di arrivare in fondo. Belandi, non ci crederai ma non mi ha più permesso di andarmene: cantiamo questa e cantiamo quest’altra, allora gli ho detto: senti, bisogna che mi dai del grano, e lui voleva darmi dei soldi! E insieme a quell’altro mi facevano il coretto, esaltati come due bambini. Allora ho proposto di fare “Canzoni stonate” e ho cambiato un po’ le parole: “C’è Ludo che canta, lo scemo fa il coro, stonato com’è” e tutti a ridere e pure Ennio rideva, faceva l’autoironico. Che pena. Alla fine ci siamo seduti tuti e tre intorno ad un tavolo, manco fosse il consiglio di Stato e Ennio ha detto che dobbiamo assolutamente collaborare, perché ha un mucchio di contatti con mezza Genova, il bastardo, e loro due da soli non ce la fanno a fare tutte le date che si prospettano nemmeno se si dividono. Ovviamente gli ho parlato di te: non ti avevano mai visto, né sentito, e gli ho dovuto spiegare che sei il migliore pianista sulla piazza e Ennio mi ha detto che se sei così capace di far viaggiare il pianoforte c’è una situazione interessante che dovrebbe concretizzarsi a giorni. Stasera siamo qui perché la Gesy si fida di Ennio ciecamente, stravede per lui, lo ha promosso direttore artistico! È matta. Comunque, matta o no, ha grandi progetti, vuole far musica tutte le sere e così ecco che torno a suonare nel pisciatoio, ma guarda te se mi ci doveva riportare l’avvocato delle cause perse…”. Guardavo con più apprensione la porta stretta di quel locale a me ancora sconosciuto e mi sembrava quella degli inferi: “Non riesco a credere che sia stato un pisciatoio” mormorai, e Ludo rise: “Pensa, pagavi dieci lire per una pisciata e cento per una cagata. C’erano anche le docce, ma c’era da prendersi i funghi come minimo. Poi lo hanno smantellato ed è rimasto chiuso per tanti anni, finché ne hanno fatto questa specie di locale”.
“E che tipo è Gesy?” “Un fichino, tra poco la vedrai. Per non dire di suo figlio Tiger…”.
“Tiger?! Sarà un nomignolo?” “No, pare che lei lo abbia registrato all’anagrafe proprio con quel nome. È un tipo palestrato, con i bicipiti tatuati. Fa i cocktail, se così vogliamo chiamare quei cancaroni che sono solo ghiaccio e acqua alla spina, ma i clienti se li bevono a bidoni tutti felici. Tiger si occupa anche della sicurezza, prima che inizi la serata si mette sulla porta e fa entrare solo chi ha meno di cinquant’anni”.
“E può farlo?” “Certo che può! Non è mica un locale aperto al pubblico, è un ARCI, per entrare devi essere socio e se sei gradito la tessera si fa al momento, ma non la fanno nemmeno, tanto chi ci viene a controllare. Se invece non sei gradito Tiger ti dice che devi spedire per raccomandata una domanda scritta e il consiglio direttivo la vaglierà e appena possibile ti farà sapere. In sostanza ti si dice che te ne devi andare a fare in culo e non farti più vedere”.
“Non mi pare molto democratico”. “Ma è chiaro che l’associazione è una farsa, non c’è nemmeno il libro dei soci. La Gesy ha aperto come circolo per non pagare le tasse e per fare entrare solo chi le garba, dice che se è un club esclusivo la gente farà a pugni per entrarci e lei potrà selezionare la clientela come meglio crede. Capirai che club esclusivo, capirai che clientela! Però pare che siano partiti bene, Ennio e Mimmo finora hanno fatto qualche serata e c’era sempre pieno di gente, non ti muovevi. Perciò si sono gasati ma per me è un po’ troppo presto per esaltarsi, si sa com’è Genova: ogni anno salta su un pastore di popoli che dice: andiamo tutti là! E tutti dietro come le pecore. E l’anno appresso, nuova transumanza, tutti da Gino, in Via Assarotti, che è un baretto di due metri quadrati dove non è andato mai nessuno, ma vedi le macchine in tripla fila. E così Gino, dopo aver messo tanto di quel fieno in cascina come non lo aveva mai visto in una vita, l’anno appresso vende il bar a un cazzone che pensa di diventare ricco e invece non vede arrivare più nessuno, perché ora si va tutti al Monumento di Quarto, che vai a bere sugli scogli e poi butti il bicchiere in mare. Ma la Gesy è convinta di essere una grande imprenditrice, pare che abbia rilevato anche “L’antica Corte”, qui vicino, anche quel locale era chiuso da anni, da quando era morta la Mina, poverina, che ci faceva il jazz, le piaceva tanto. Mi sa che è per questo che è morta prematuramente, il jazz porta sfiga, l’ho sempre pensato, è una musica fatta apposta per i funerali, intristisce. Chissà come sarà ridotto, ci saranno i topi che vanno avanti e inderè, si saranno mangiata tutta la moquette, sai che tanfo, ci sarà ancora l’acqua dell’alluvione di due anni fa, ché è mezzo interrato. Non credo che sia stato un affare rilevarlo. In ogni caso, che la Gesy abbia le manie di grandezza sarà un bene per noi, almeno per i primi tempi. Purché paghi...”.
In quel momento si udì un rollio di gomme sull’asfalto e vidi sopraggiungere a gran carriera una Mercedes bianca nuova di zecca che si arrestò a pochi passi da noi, nell’unico parcheggio libero. Il motore e i fari si spensero all’unisono, lo sportello di sinistra si aprì e ne uscì un uomo sulla quarantina, distinto e di altezza media, con la barba corta e ben curata, lo sguardo ilare, una bella camicia bianca, quasi brillava sotto la luce dei lampioni. Si aprì anche lo sportello dall’altra parte e discese un capellone con jeans e maglietta nera. “A bulicci, vi pare questa l’ora di arrivare?!” gridò loro Ludo. “È tanto che aspettate?” replicò l’uomo distinto con la barba, come preoccupato. Si avvicinò guardandomi sorridente, mi tese la mano e mi disse: “Io sono Ennio e tu devi essere Pierin.” “No, è John Lennon resuscitato per la grande occasione” interloquì Ludo ridacchiando.
Ennio sorrise e mi disse con la stessa cordialità: “Ludo mi ha detto che suoni divinamente il piano. Non sai quanto sia lieto di questa collaborazione!”, mi strizzò l’occhio con aria complice e mi chiese: “Dai lezioni? Di pianoforte?”. Ludo si intromise “No, di cinese. Te l’ho detto che è matto. Pensa che stamattina l’ho chiamato sul telefono di casa e mi fa: ciao, io sono a casa, tu dove sei? “.
Ennio finse di non sentire: “Quanto prendi? 25.000 a lezione? Va benissimo. Tieni il mio biglietto da visita, lunedì vieni nel mio ufficio alle 12 in punto, lì ho un bel piano elettrico, così cominciamo”.
Ludo interloquì ancora, con più acredine: “Belandi, Ennio, se non hai imparato a sunà fino ad adesso, mi vuoi dire che mi diventi grande pianista a quarant’anni e passa? E grazie a Pierin, poi?”.
Ennio mi disse cordiale: “Il tuo socio non ti vuole molto bene, Pierin; gli dà fastidio che guadagni dei soldi”. Ludo si adirò: “Andate a cagare tutti e due! E fatele, queste lezioncine di merda, voglio proprio vedere cosa ci esce!”.
Mimmo si intromise con aria ansiosa: “Ennio, dobbiamo andare…”.
Ludo volle dire ancora qualcosa, con rinnovato sarcasmo: “Ecco, giusto, prima di entrare te lo dico io quale è la collaborazione ideale: che tu e Mimmo state a casa e a suonare ci andiamo io e Pierin, che teniamo famiglia. Vi dovreste vergognare a levare il pane di bocca agli onesti lavoratori dello spettacolo, solo per appagare le vostre manie di grandezza!”. Ennio sorrise di superiorità e disse a Ludo, con tono calmo e cortese: “Per la verità, il lavoro ve lo stiamo regalando. Mica ti ho chiesto la percentuale. Su, adesso entriamo, che Gesy ci sta aspettando”.
Ludo, stizzito, non aggiunse altro e ci avviammo. Appena varcai la soglia di quella porta stretta, sentii una morsa alla gola: eravamo praticamente in una caverna scavata sotto il monumentale scalone che dalla piazza si arrampica sulla collina di Albaro. Non c’erano altre porte, e nemmeno finestre o altri pertugi. Per pompare aria là dentro c’era soltanto una grossa bocchetta attaccata al soffitto, che aspirava anche il fumo e Gesy proprio in quel momento l’accese col telecomando e si levò un rombo sordo. Lei era una donna bassa e grassottella, coi capelli cotonati tinti di biondo platino, in realtà corvini, a giudicare dalla vistosa ricrescita e dalle sopracciglia. Il naso camuso e le labbra carnose, con due dita di rossetto scarlatto, i denti a rastrello sempre in mostra, perché sorrideva di continuo, completavano quel volto che mi sembrava più una maschera. “Ennio, amore mio, sei in ritardo! Mi fai morire!”.
Gridò appena lui le fu davanti. Sbatteva le palpebre come se fosse perdutamente innamorata. Ludo gridò, facendole il verso: “Amore mio! Vedete anche di darvi dei baxi, che schifo!”.
I due fecero come se nessuno avesse parlato e Gesy disse ad Ennio con trasporto imperioso: “Ricordati che mi devi cantare “La vita mia”, di Amedeo Minghia! Mi piace troppo!”.
“Minghia!” gridò Ludo è si mise a sghignazzare. Ennio annuì sorridendo bonario e disse a Gesy con tono gentile: “Ti presento Pierin”. Mi feci avanti e porsi la mano alla mia nuova datrice di lavoro con la massima gentilezza. Lei la strinse mollemente e guardandomi indagatrice, mi disse con tono spicciativo: “Tanto piacere” e poi disse a Ennio. “Mi pare che il tuo amico si rassomiglia a John Meccarti”. Ennio la corresse con tatto: “Lennon, John Lennon”.
Intervenne Ludo: “John Lennon è morto, toccati le balle Pierin!”. Erano passati solo cinque minuti da quando ero entrato là dentro e avevo già una gran voglia di andarmene. Ennio ultimò le presentazioni: “Lui è Tiger” mi disse indicandomi con un gesto rispettoso il figlio di Gesy, intento a rimestare con un coppino in una boccia colma di sangria. Sembrava un lottatore di sumo, non si voltò nemmeno a guardarmi, emise un grugnito e continuò a fissare il liquido e a rimescolarlo. Dovetti riconoscere che mi ero già immaginato perfettamente madre e figlio in virtù delle poche e sarcastiche parole che Ludo aveva proferito poc’anzi per descriverli. Si somigliavano molto. “Vedi quella specie di terrazzino lassù?” mi disse Ludo facendomi segno col dito di guardare verso il soffitto. “Questi due sciaccheli adesso andranno ad appollaiarsi là, come i piccioni nella piccionaia. Che bello! Vedrai come si respireranno tutto il fumo prima che vada a finire nell’aspiratore”.
Gesy intervenne risentita: “Uè Ludo, ma che c’hai sempre da ridire?”. Il suo tono era aggressivo, ma affettuoso al tempo stesso, come se Ludo fosse un amico di vecchia data e pensai che le piacesse. “E c’ho da ridere sì” replicò Ludo, sullo stesso tono, guardandola dritto negli occhi. Temetti che la insultasse, invece le fece il suo sorriso a trentadue denti e si accese un’altra sigaretta, tirò una lunga boccata e le soffiò il fumo in faccia. Lei fece una mossetta, come lusingata. Ludo parve incoraggiato da tutto ciò e le parlò ancora, con tono di amichevole rimprovero: “Tu fai suonare questi due impediti, invece di fare esibire me e soprattutto Pierin, non lo consideri ma ti assicuro che è un vero fenomeno, il migliore di Genova, devi sentirlo”.
Io ero felice che Gesy non mi considerasse, la sua confidenza mi avrebbe messo molto a disagio, soprattutto temevo che mi comandasse di andare a ficcarmi su quel terrazzino. Per fortuna era determinata nelle sue scelte: “Stasera sicuro che non lo potrò sentire, perché deve suonare l’amore mio!”. Ludo non insisté e io tirai un sospiro di sollievo. “Vedi Pierin, come va il mondo, noi qui sotto a guardare e sulla ribalta quei due paralitici” mi disse Ludo con tono di scherno e Gesy gli ribatté prontamente, con aria provocatoria: – Che, sei geloso, ah? – Ludo sussultò e ribatté risentito: – Ma per carità! Lo dico per te, poi fai come vuoi. – Gesy insisté: “A me mi pare che tu sei proprio geloso e lo capisco, Ennio è un artista nato, canta con tanto sentimento che mi fa compassione”.
Ludo scoppiò a ridere di gusto: “Ecco, brava, hai detto proprio bene!”. Quindi gridò al suo rivale: “Canta Ennio, va, che fai compassione!”.
Ennio e Mimmo si erano già appollaiati sul terrazzino, dopo essersi inerpicati su per una stretta e scala a chiocciola di ferro, issando a fatica tutta la strumentazione. Non riuscivo a spiegarmi come avessero fatto. Solo a vederli lassù, mi mancava l’aria, volevo uscire fuori, andare a casa. Ennio lanciò la base de La Vita Mia, non aveva ancora cominciato a cantare che Gesy applaudì con entusiasmo puerile. Ludo blaterò chissà cosa, noncurante dei gesti con cui la donna gli imperava di stare zitto ed io quasi vedevo tutti i pisciatoi bianchi e panciuti attaccati al muro di piastrelle, bene in fila, e mi sembrava perfino di sentire l’odore di cloro e di ammoniaca. Non riuscivo a credere che di lì a poco quella caverna si sarebbe riempita di gente fino all’inverosimile, chi mai poteva desiderare di stare in un luogo simile?
Man mano che i minuti trascorrevano, aumentava in me il senso d’ansia che avevo avvertito non appena entrato là dentro. Guardai Gesy, che troneggiava in estasi dietro al banco e non capivo se fosse troppo innamorata o semplicemente per tirchieria che finora non ci aveva offerto neanche un bicchiere d’acqua. Quando La vita mia terminò Ludo si mise subito a blaterare ad alta voce e pareva che parlassero in dieci in una volta. In quel momento cominciò ad entrare gente. Tiger si era messo sulla porta, ma dopo un po’ se ne tornò al banco, ché di gente anziana non ce n’era. Subito non ci feci troppo caso, arrivavano alla spicciolata, uno o due per volta, e dopo essersi presi un beveraggio si spargevano per il locale. Anch’io fui rapito dalla performance di Ennio e Mimmo, cantavano canzoni soft, “Just way you are, How deep is your Love, Hello”, e quelle poche persone cominciarono a gridare che se avessero proseguito su quel tenore si sarebbero tagliati le vene. Gesy, noncurante di quelle critiche, continuava a rimirarsi il suo pupillo tutta soddisfatta. Fu soltanto dopo una mezz’oretta che mi accorsi che era diventato impossibile muoversi, la gente che si era accalcata ovunque e quella caverna sembrava un piccolo inferno. Io e Ludo eravamo schiacciati come sardine contro il banco, lui era tranquillo e a vederlo così la mia angoscia aumentò, la porta mi pareva ancora più stretta, era distante due metri, forse tre, pensai che non ce l’avrei mai fatta a raggiungerla, fendere quel muro umano era impossibile. Tutti gli avventori tenevano in una mano un bicchiere di vetro massiccio pieno di ghiaccio e alcol, da cui faceva capolino una corta cannuccia nera, e nell’altra una sigaretta accesa. Rumoreggiavano, invocavano musica giusta e Ennio passò al repertorio dance e quel denso ammasso di carne umana maleodorante di cui anch’io mio malgrado facevo parte, si mise ad ondeggiare a tempo, come un corpo unico, dando vita ad una strana e inquietante danza. Gesy spense le luci bianche e accese i faretti di vari colori di cui quello dominante era il rosso. La temperatura era salita in modo preoccupante, in tutto il locale si era sviluppata un’umidità bestiale, l’aria era ormai irrespirabile, soprattutto per il fumo, che saliva verso il terrazzino, lento e inesorabile. Mi assalì l’idea che presto non ci sarebbe stato più ossigeno e saremmo morti tutti calpestandoci l’un l’altro, mi sentii mancare e rivolsi a Ludo uno sguardo disperato, ma lui era intento a guardare Ennio, come se non volesse perdersi nemmeno un minuto della sua performance. Era evidentemente una questione privata tra lui e quello che ormai era il suo grande rivale. E quei due parevano trasformati, si davano da fare con impeto strabiliante, senza un attimo di respiro sparavano come proiettili una canzone dopo l’altra, avevano un repertorio sterminato: “Isn’t she Lovely, Supersticion, I wish, Long Train runnin, Jump, My Sharona, It’s only love…” Si ergevano eroicamente su quel baluardo, mi parevano più grandi di quel che fossero in realtà. Guardai l’orologio appeso al muro dietro il banco: erano appena le dieci.
Le facce feroci della gente mi dicevano che non avrebbero permesso a quei due di scendere da lassù prima dell’alba e l’alba non sarebbe mai arrivata. Non vedevo nemmeno più la porta, era incredibile ma continuava a venire gente e fui preso dal panico, cercai ancora Ludo con lo sguardo e lui sempre lì a fumare tranquillo. Era un incubo: Gesy e suo figlio erano creature infernali, e anche Ennio, avvolto da quella nuvola di fumo che si stagliava contro la luce rossa, con la sua barbetta, era un demone, come avevo fatto a non capito subito, quella cordialità era tipica di Satana…
E quella gente inferocita erano i dannati che latravano e bestemmiavano il creatore, dopo aver gridato: “Ritmo, ritmo!” e il loro sovrano, assiso su quel trono, sorrideva cinico e compiaciuto mentre menava la danza. Il panico mi travolse totalmente. Era da un bel po’ di tempo che non mi veniva un attacco così acuto, cominciai a spingere disperatamente contro quel muro di carne umana per cercare di aprirmi un varco, suscitai più di una protesta in quella gente che guardava in alto con lo sguardo sognante, pestai dei piedi, diedi gomitate nei fianchi, e quando credetti di stare per svenire, come per miracolo, mi ritrovai fuori, nella vasta piazza e a momenti mi buttai a terra come un naufrago. Respirai a lungo l’aria fresca della sera, e non osai voltarmi a guardare quella porta da cui fuoriusciva quel baccano.
Ma dopo poco mi sentii di nuovo oppresso, ché tutte le cose all’intorno mi sembravano avere una aria minacciosa: gli alberi, l’acqua agitata e rumorosa della fontana, le auto in sosta, compresa la Mercedes bianca di Ennio, potevano nascondere chissà quali insidie. “È come la pentola a pressione, più trattieni le emozioni e più senti di scoppiare”, mi aveva detto un giorno una maestra di Reiki. Se solo avessi potuto scoppiare a piangere, anche solo per pochi minuti, forse avrei avuto una tregua, sia pur breve, da quel tormento, ma non ci riuscivo. L’unico rimedio che mi pareva possibile era quello di andarmene a casa. Mi chiesi per l’ennesima volta perché ma avevo imboccato quella strada oscura sulla quale probabilmente avrei finito col perdermi del tutto. “Già, perché se non fossi stato già mezzo perso mai l’avrei imboccata”, mi dissi sconsolato.
Il battito cardiaco pian piano si stava normalizzando, ma perdurava quel tremendo senso spaventoso di vuoto, di solitudine e di dissoluzione totale e non mi dava pace. La voce di Ludo risuonò in tutta la piazza: “Che cazzo fai là seduto, deficiente!”. Non trasalii, me l’aspettavo e mi ero già preparato all’idea. Mi volsi verso di lui lentamente e gli dissi stancamente: “Come fate voi, invece, a rimanere là dentro”. Lui mi fissò con aria incuriosita, poi mi chiese con tono benevolo: “Stai male, Pierin?”.
Pensai di essere molto pallido, ragione per impallidire vieppiù. Lo guardai come se non lo riconoscessi, i suoi lineamenti mi apparivano sfocati, sperai di perdere conoscenza e di risvegliarmi a casa, ma non avvenne: “Non ci si può fare sacrificare così per 100.000 lire, è una follia” gli dissi e tornai a fissare il vuoto davanti a me. Ludo mi si sedette accanto e si accese una sigaretta e dopo qualche boccata parlò: “Hai visto? Se te lo dico che sono matti.”
Il tono della sua voce era diventato di colpo calmo e comprensivo e mi illusi che mi proponesse di andarcene. Continuò: “Sono quelli come Ennio che rovinano la piazza. Non sono nemmeno le undici e continueranno per altre tre ore buone, come minimo, Tiger verserà la mistura nei bicchieri di quei disperati fino all’ultima goccia, sono più di duecento, ogni consumazione costa 10.000, quindi, alla fine Gesy incasserà almeno sei fette e chi ci rimette siamo noi due. Sono io il primo a dire che 100.000 lire sono una miseria, ma qual è l’alternativa? Che ce ne stiamo a casa? Lo so che a te piacerebbe, vuoi sempre startene a casa, sei casalingo, ma è pure vero che non puoi campare solo con le lezioncine. Se deciderà di farci suonare andremo”.
A quel pensiero rabbrividii e gli implorai. “Ma almeno ora non andiamo là dentro, a farci venire il cancro!” avevo gridato e Ludo mi guardò come preoccupato, poi mi rivolse parole come se fossero schiaffi per farmi rinsavire: “E dove vuoi stare, qui seduto sul bordo della fontana fino alle tre del mattino? Sei fua davvero! Su, divino Pierin, torniamocene nella grotta, a goderci lo spettacolo, per una volta che la serata non grava sulle nostre spalle. Se si vuole prendere il lavoro bisogna fare atto di presenza”.
Sentii il cuore che ricominciava a battere come un tamburo e protestai: “Sono stanco”. Ludo non si scompose: “Stanco di che? Capirai che fatica star lì qualche oretta, passa presto ed è divertente stare a guardare quell’egocentrico di Ennio che si dà da fare assieme al suo garzonetto. Per una volta non farmi il lavativo, su, andiamo”. Tentai l’ultima carta: “Vai tu, ti raggiungo dopo”. Ludo rise: “No, no, figuriamoci se me ne vado dentro e ti lascio qua, fisso te ne vai a casa. Adesso te ne torni dentro con lo zio, se no ti escludo dall’ingaggio e poi voglio vedere come fai a pagarti l’affitto. E poi, se non lo caghi, Ennio non viene più a fare le lezioni. Non hai capito che te le ha offerte solo per metterti in soggezione? Adesso gli servi per tappare il buco, ma quando non gli servirai più ti dirà che non ha tempo, c’ha le cause da seguire, vedrai. Batti il ferro finché è caldo e non metterci troppo il cuore su quelle lezioncine. Dai, non fare la belina, andiamo”. Mi convinsi solo perché anche quella piazza completamente deserta cominciava ad agitarmi e seguii Ludo come se andassi al patibolo.
Mi ficcai in una specie di nicchia tra il banco e la porta e provai subito un insperato sollievo, perché da lì avevo l’impressione di poter uscir fuori quando volessi e ciò per ora mi bastava. Ennio e Massimo ora stavano riscuotendo successo, la gente gridava ammirata: “Ennio faccelo vedere! Nudi! Nudi! Se fate un lento, guai, vi ammazziamo!”. Perché tutta quella gente aveva così tanto bisogno di ritrovarsi lì ammassata, a bere, fumare, gridare e farsi stordire da quella musica a tutto volume, peraltro brutta copia dell’originale? Perché non mettere direttamente i dischi? Perché nutrivano per Ennio e Massimo un’ammirazione mista ad ostilità? Ludo aveva detto che ormai ognuno pretendeva il suo momento di gloria la piccionaia era troppo stretta perché qualcuno di loro potesse andarci e cantare, ecco il perché di quell’aggressività. Era invidia, ognuno bramava di salire almeno una volta sulla piccionaia, ché si soffriva troppo a non potersi stagliare dalla massa almeno per il tempo di una canzone. Cos’era una canzone se non tre minuti di tregua dall’insopportabile anonimato? E i dischi non servivano perché a Ennio e Mimmo si potevano rivolgere lodi e improperi indifferentemente, non erano irraggiungibili come Michael Jackson e gli altri dei dello star system. Ecco a cosa servivamo noi musici di serie C: eravamo una via di mezzo tra il pubblico e i grandi. “Suonami una canzone di John Lennon, vorrei tanto che fosse vivo e vederlo in carne ed ossa, parlargli, dirgli bravo, oppure cretino, e siccome non c’è mi accontento di dirlo a te”.
Anche l’alcol serviva a non sentirsi troppo schiacciati dall’anonimato, così come quel fumare accanito serviva per sentirsi grandi almeno nel produrre quell’enorme nuvola tossica, così visibile, tangibile; come se guardandola si fosse più certi di esistere e di lasciare un segno tangibile di sé in quell’esistenza che dileguava rapidamente nel nulla. Solo così quella gelida carenza ontologica che li affliggeva tutti poteva essere tollerata, almeno per quelle ore, e sapere che al sabato successivo si sarebbe rinnovato quel sabba avrebbe dato loro la forza di affrontare la dura settimana che già incombeva, perché se per me il tempo non passava mai, per loro scorreva anche troppo in fretta, come il sangue nelle vene. Su quelle facce feroci ora leggevo chiaramente il desiderio protervo che quel momento non finisse mai. “Si devono illudere che la vita sia qualcosa di diverso da ciò che è, tra trent’anni si diranno: ti ricordi come ci divertivamo? Quelli sì che erano anni belli! I giovani di adesso non sono capaci di divertirsi come noi! Nemmeno dio in persona avrebbe potuto convincerli che quello che stavano vivendo era solo un orrore. Sicuramente anche le gesta di Ludo erano state solo prosaiche, ma non importa tanto come una cosa è in realtà quanto come la si racconta”. Ero talmente certo che quei pensieri – che non erano nemmeno miei, ma erano come misteriose entità che mi erano ventue a far visita, fossero La Verità che provai l’impulso irrefrenabile di gridarla. Ma mi bloccai per la paura che tutti, a cominciare da Ludo, mi avrebbero deriso e ricoperto di insulti, perfino riempito di botte. “Terrò chiuso in me questo terribile mistero, per ora, lo rivelerò quando i tempi saranno maturi” Così mi dissi, e fu allora che il panico si dileguò del tutto come neve al sole e mi invase un profondo senso di pace. La situazione si era totalmente capovolta, ora sentivo che quella massa di gente inconsapevole non poteva più schiacciarmi, come se un dio mi avesse sollevato in alto e tutto quel che poteva avvenire là dentro, perfino un incendio, non mi toccasse minimamente.
Il lato bello e brutto della vita è che ogni cosa, per bella o brutta che sia, ad un certo punto ha termine. Dunque arrivò anche il momento in cui il locale si svuotò e rimanemmo soltanto Ludo, Gesy, Mimmo, Ennio, Tiger ed io. Erano le quattro del mattino e mi stupii non solo di non aver sonno, ma di sentirmi anche pieno di energia. Anche gli altri sembravano freschi come rose, soprattutto Ennio. Era veramente un demone. “Sei stato grande anche stasera, amore mio!”. Gli disse Gesy e ci mancò poco che lo baciasse in bocca, tanto le loro teste si erano avvicinate. Invece gli porse due biglietti da 100.000 lire che aveva tratto da sotto il banco. Ludo non perse l’occasione di commentare: “Belìn, che paga favolosa! Ma è pure troppo, se vogliamo dirla tutta!” poi scoppiò a ridere fragorosamente, il suo livore era più che evidente e fastidioso. Gesy lo guardò sorridendo di superiorità e spiegò: “È la paga che per ora mi posso permettere. Ma Ennio è un signore e si fida della Gesy, lo sa che quando arriverà il momento saprò ricompensarlo”. “Grande serata anche questa volta, Ennio sei grande!” esclamò Tiger, mentre rimetteva a posto gli ultimi bicchieri, e potei finalmente udire la sua voce roca e cacofonica. “Ma quale grande serata, per favore! Grande casino! Ti assicuro che io e Pierin daremo veramente il bianco qua dentro, altro che questi due scappati di casa!”.
Lo odiai, anche perché da tutta la sua persona, oltre al livore, trapelava insicurezza, non lo riconoscevo, temevo che Gesy abboccasse alla sua provocazione, raccogliesse la sfida e ci mettesse alla prova almeno per una serata alla quale, ne ero certo, non sarei sopravvissuto. Sicuramente ero impallidito di nuovo, ma nessuno ci fece caso. Gesy sentenziò determinata: “Ennio rimane dov’è. Questa è casa mia e qua comando io”. “Squadra vincente non si cambia” le fece eco suo figlio, senza sollevare lo sguardo, sempre trafficando con i bicchieri.
Ludo fece un gesto di disappunto e bofonchiò: “Fai come ti pare, non è che muoio se non mi metti a suonare sulla piccionaia”. Io stavo per dire: “sono io che morirei se mi mettessi sulla piccionaia”, ma Atena mi consigliò di tacere. Ludo parlò di nuovo: “Allora dimmi perché ci hai fatto venire qui a romperci le balle tutto il tempo”. Gesy replicò serenamente: “Perché avevo bisogno di vedere prima di decidere, e alla fine ho capito che Ennio qua dentro è insostituibile. E ho deciso che a voi due vi metterò a suonare all’Antica Corte”.
Nonostante la sua arroganza, sentii quasi di amarla. Ludo invece le disse a muso duro: “Ed io ti ringrazio del pensiero, ma a suonare in quella chiavica di posto non ci vengo, sarà pieno di topi che scappano di qua e di là, per non dire della puzza di muffa che al confronto questo merdaio è un roseto”.
Gesy lanciò un’occhiata d’intesa a Ennio e ribatté: “E non ci venire, faccio suonare Pierin e basta. Apposta mi farò venire il pianoforte, voglio fare un club di classe”. Io trasalii, Ludo rise, sforzandosi di dissimulare l’astio che lo bruciava, e replicò: “Un club di classe! Ma belin! E va ben, viene solo Pierin, così risparmi. E quante serate ci faresti fare, sentiamo:”. Ennio trasalì di soddisfazione e disse a Ludo con tono ironico: “Ah, ma se dici “ci faresti fare” vuol dire che vuoi venire. Deciditi! “. Ludo si morse le labbra e Gesy interloquì: “Quante serate? Due, tre, anche tutte, dipende da come piglia, prima cominciamo e prima vediamo”.
Ludo fece un gesto come di resa e provai pena per lui, era la prima volta che mi appariva sorpassato dagli avvenimenti. Percepii tutto lo sforzo che fece per darsi un tono prima di dire: “E quando si comincia, sentiamo?”. Gesy ed Ennio si lanciarono di nuovo uno sguardo complice, poi lei rispose spavalda: “Questo giovedì che viene faccio l’inaugurazione e durante il buffet suonerà Pierin e tu ti stai fermo. Dopo mangiato invece suonate tutti e due, così la gente balla. Vi darò 100.000 lire per uno, mi voglio svenare, però mi arraccomando di portare più gente che potete, che se non incasso come vi pago?”.
Ludo ridacchiò: “Sì, pure la gente ti devo portare. Se ti porto la gente allora suona un altro”. Gesy fece un gesto come a dire: “prendere o lasciare”. Ludo ed io stavamo quasi per varcare la soglia quando Ennio mi gridò: “Pierin, mi raccomando, lunedì vieni nel mio ufficio a mezzogiorno in punto, non ti dimenticare: non vedo l’ora di iniziare le lezioni”.
Annuii e gli rivolsi un sorriso di gratitudine. Quando fummo fuori, Ludo si voltò a guardare quella porta stretta dalla quale ora non proveniva altro che un tenue bagliore di luce gialla ed esclamò: “Gli anni belli! Ma vaffanculo! Siamo ai resti!” poi si avviò verso la sua macchina e prima di entrare nell’abitacolo mi disse: “Mi raccomando giovedì, porta un po’ di gente”.
Il cielo stava rapidamente schiarendo, la piazza non aveva più quell’aspetto tanto spettrale che mi aveva tanto angosciato; il mondo infero dileguava in fretta lasciando posto al mondo supero.
Erano le cinque del mattino quando finalmente mi misi a letto. “Come finirà tutto ciò?” mi chiesi sgomento. Non ne potevo più, ma non ebbi il tempo di pensare altro che sprofondai in un cupo sonno senza sogni. Tanto la risposta non l’avrei mai saputa.