E’ improbabile ammettere una propria qualsivoglia mancanza. Anzi, è probabile la si voglia spacciare per qualità, per pregio.
Tuttavia, non é improbabile che preveda il pagamento di un prezzo, laddove, ad esempio, l’esigenza di apparire a livello sociale manifesta circostanze che richiamano la subalternità del “mi si vede, dunque sono”, citando JP Sartre.
La verità dell’individuo su cui fonda la propria stabilità emotiva é una miscellanea identitaria avvezza a paludarsi di scenografie e mascheramenti sotto mentite spoglie.
La verità diviene passo passo un contenitore colmato il più delle volte da apporti artificiosi e aleatori, in cui una mediaticità esuberante rintraccia e avviluppa l’individuo in ogni ambito d’ insistenza. Tanto più che la ricerca della verità é quasi sempre determinata dalla scelta preventiva tra innumerevoli verità.
A latere, l’esposizione compulsiva ai fini del riconoscimento di sé delega ad altri il potere personale, contrassegnandosi tale atteggiamento altruistico come contraddittorio di fronte all’ imperante individualismo. Non a caso, il legame conoscitivo tende in media ad essere calcolato come mezzo non come fine.
In tale mono-direzione casca a fagiolo l’ anglicismo egosurfing, l’ossessione giornaliera di verificare l’ottenuto consenso social dei like. Fenomeno che pone in avamposto un individuo proteso a visionare costantemente il grafico della propria identità.
In questa pre-visione eterodiretta si esprime il calibro e il gradimento del riconoscimento di sé nella versione che alimenta un alter-ego temporaneamente sostitutivo della versione originaria.
Vale sostenere l’ autenticità come una versione non bisognosa di riconoscimento (anche social) e che considera ogni eccentricità a tal fine una inessenziale sovradimensione.
La sprezzatura, la sminuizione di sè nei confronti di uno spazio relazionale esterno non regge a lungo l’assalto di un contesto variopinto in cui il soggetto si scopre incapace di re-agire con adeguatezza.
Cosicché, in perenne “fuga dalla critica”, rimandando all’ omonimo tromp-l’oeil di Borrel del Caso (1874), l’individuo accoglie il consenso e fugge dal pericolo insito nel confronto.
Per concludere, in un contesto umano vacillante in termini di dinamiche di relazione, diviene esigenza la figurazione offerta da W. Dilthey: “L’io è un tessuto a più fili, più ne assiema più diviene robusto ”. Massimiliano Barbin Bertorelli