Una temibile insidia sociale agisce sottopelle nell’esistenza umana moderna: la divorante ossessione per un ruolo sociale, per una professione il cui valore taumaturgico è basato sul profitto.
Questa ossessione connette entrambi i generi e molti ambiti lavorativi, non lasciando scampo ad un buon numero di individui. E a coloro che, a vario titolo, vi orbitano intorno.
Facilmente si intuisce il mix di aspettative (proprie e altrui) che l’ingresso nel mondo del lavoro porta con sé, nonché il susseguente dispiego di risorse necessarie, non sempre sufficienti, per affrontare e vincere il susseguirsi di incalzanti traguardi.
Si intuisce, tra le righe, il destino onorifico che la Società assegna a chi occupa una rilevante posizione sociale; per converso, il destino inglorioso e biasimevole all’individuo rinunciatario e incapace che dichiara di accontentarsi del proprio stipendio, in stile La volpe e l’uva.
Approcciare al lavoro con una teoria da “mille lire al mese”, titolo di una canzone risalente al 1939, dichiara un obiettivo troppo modesto (ambiziosissimo, nella realtà contemporanea) per meritare il consenso unanime della Società.
D’altro canto, é paradossale che un’ occupazione lavorativa, da iniziale motivo di contentezza, debba condurre a malanimo e stress, fino a diventare motivo di cronico mal-essere.
Già F. Honderlin delineava il dramma umano nella presenza più di professioni che di uomini e H. Kleist narrava di un individuo appesantito da inutili sovrastrutture, ben lontano dall’essenziale, dall’ autenticità.
In sintesi conclusiva, galoppa l’insidia di un’ esistenza devoluta al falso mito dell’opulenza quale preteso simbolo di successo e alla rincorsa della notorietà sociale costi-quel-che-costi.
Obiettivi destinati a produrre, quando va bene, individui inquieti e accigliati: le classiche vittime invincibili del profitto. Massimiliano Barbin Bertorelli