In corso al Teatro Modena il celebre capolavoro del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, Mutter Courage und ihre Kinder, datato 1938.
Brecht, vissuto durante l’ascesa del potere sovietico, non dimorò mai in Russia pur condividendo gli ideali marxisti.
Egli credeva nel ritorno della giustizia sociale ma guardava il presente da realista, con occhio distaccato dalle dottrine: sapeva bene che non sarebbe stato nè domani nè dopodomani e che per arrivarci si sarebbero viste altre atrocità ancora per tanto tempo.
Ma proprio perchè la vittoria è sicura, tutta la sofferenza che precede pare essere tanto fatale quanto disumana: sofferenza mostruosa e anche evitabile se la cecità degli uomini, la loro incapacità di guardare lontano, non impedisse il sacrificio presente e futuro di tante vite umane inutilmente spezzate.
La vecchia venditrice ambulante opportunista trascina il suo carretto tra gli eserciti: sa di cosa abbisognano i soldati, alcol, munizioni, anfibi. Pensa che per vivere o sopravvivere sia l’unico mestiere possibile.
Ama e protegge i suoi tre figli di padri diversi con un amore estremo, fisico, quasi animale, con materno egoismo: i maschi non devono fare il soldato, la femmina, già menomata, va tenuta nascosta.
La guerra le porta via i figli ad uno ad uno, uno spreco di vite, ciononostante il suo dolore non le insegna niente, è anch’esso uno spreco. Continua a trascinare il suo carretto tra gli orrori ( il palcoscenico gita sempre più in fretta), potrebbe fermarsi ma non lo fa finchè si prospetta un misero guadagno: avanza, ostinata e rapace, senza capire che sta contribuendo alla catastrofe.
La guerra si nutre di uomini, anche dei figli suoi, ma perfino dopo aver perso l’ultima figlia Made Courage non si ferma, è sola ma continua l’attività, porta avanti la sua cecità morale, la sua dannazione finchè c’è odor di guadagno: non ha imparato niente, ma l’Autore spera che lo spettatore impari qualcosa, la sua arte non è un fine ma un mezzo di comunicare lo sdegno per la schiavitù morale in cui l’umanità trascina la propria esistenza.
Forse l’Autore si compiace del grottesto tanto da comunicare l’orrore più che la pietà e la commozione.
Intatti nella regia di Elena Gigliotti i tratti incisi dei fatti e delle persone al limite della caricatura. Simonetta Guarino è convincente nel delineare l’ambiguità nonchè la miopia morale, avvolte dal filo sottile della disperazione, che la protagonista, a tratti, pare celare dietro la volgarità del linguaggio.
Notevole il personaggio caricaturale del prete che difende la guerra come un mezzo per “rispettare” la pace.
Ci riportano ai tristi eventi attuali le notizie dei tg che paiono rammentare le responsabilità del mondo intero mentre riducono a spettacolo le atrocità della guerra.
Il cast presenta attori che recitano con svariati accenti, per lo più dell’est, cantano e ballano sulle musiche di Paul Dessau, riviste da Matteo Domenichetti: giovani attori capaci e convincenti, forse un po’ troppo rivolti alle esibizioni atletiche dei corpi, che paiono una caratteristica del teatro contemporaneo.
Un appunto? La lunghezza dello spettacolo che fatalmente richiede un prolungato sforzo di attenzione dal pubblico che può vanificarne in parte il messaggio. ELISA PRATO