Ritornano i racconti della nostra bella Città, della nostra Genova
Ecco la vita com’è. Uno bada ai fatti suoi, va attorno per le sue faccende, ha il capo a un ordine di suoi particolari pensieri. Incontra per caso un amico, uno di quegli amici che chiamiamo vecchi anche se non sono tali, a cui ci lega con la presente fraternità di spirito l’antica fraternità d’armi (e proprio per questo gli diciam vecchio). L’amico, dopo le solite quattro chiacchere, a un tratto fa:
– Vuoi andare domenica a San Benigno? Eccoti il biglietto.
– A San Benigno, domenica? Che cosa c’è?
Non ne sapevate nulla; eravate lontano le mille miglia. Prendete il biglietto, guardate. Sopra c’è scritto Adunata di saluto di Fanti ed Artiglieri alle demolende caserme di San Benigno – Genova, 22 giugno 1930, VIII
– Ah! Le demoliscono, le caserme?
– Sicuro. Non l’avevi letto sui giornali?
Cascate dalle nuvole. Un attimo. E tutta un’onda di ricordi vi si gonfia dentro impetuosamente.La vita è così. Vi prende all’improvviso con questi richiami dal vostro mondo di oggi a quello che fu il vostro mondo di ieri: violenti come strappi.
A ogni notizia simile a questa, v’accorgete che passano, gli anni, e mutano, le cose, intorno a voi, e son tanti i ricordi, oramai, sono un mucchio, e molti luoghi, molte persone avete conosciuto, amato, che ora non sono più che fra poco non saranno più.
– Demoliscono le caserme!
Se ripetete la notizia al secondo amico che vi capita, questo si sorprende del vostro tono e della vostra espressione: non capisce il rammarico che dimostrate a quel modo. È capace di rispondervi, con un sorriso:
– Eh, sai demoliscono tanto adesso!…
Non è mica il fatto di demolire, per sé stesso. Si sa bene che certi lavori son necessari, certi sacrifici inevitabili. La città si allarga. Il suo respiro cresciuto e crescente non può esser più costretto nella cerchia antica. E, del resto, lo si conosceva, il progetto. Non è per questo, no, caro amico. È che a quelle vecchie, grandi, rosse caserme di San Benigno è attaccata una parte del nostro cuore. E a sentire che ormai è venuto il momento di buttarle giù, avete un bel dissimularlo, ma dentro, un poco (eh, sicuro) vi commovete.
Qualcuno potrebbe ricordare d’aver udito parlar di San Benigno quand’era ancora bambino, quando non aveva ancora visto Genova, e sarebbero passati parecchi anni avanti che riuscisse a vederla: d’averne sentito parlar da suo padre che lassù, nella caserma di fanteria, la più alta delle due, dove c’era il 3.o (salvo errore), ha fatto l’anno di volontariato. Faceva un certo effetto, alla fantasia del bambino, quel nome: San Benigno. Il padre ricordava gli uni, gli altri suoi commilitoni: il tale era così, il tal altro ha fatto strada; ci comandava il colonnello A, avevamo il capitano B… Il ragazzo stava attento, e pensava:
– Quando andrò a fare il soldato, chiederò che mi mandino a San Benigno.
Lo pensava. Non lo diceva. Se lo avesse detto, suo padre gli avrebbe osservato:
– Non lo devi fare, tu, il soldato: sei di seconda categoria.
Seconda categoria? È venuto il 1915 la guerra, e non ce n’era più di categorie: s’andava tutti sotto, e contenti e impazienti. Sotto! Sotto! Anche tu? Anch’io. Tutti.
Così, proprio in una di quelle vecchie caserme di San Benigno, c’entrammo che non si aveva ancora vent’anni. Dal capoluogo del distretto un lungo treno pieno di gioventù e di fumo e di schiamazzi e di canti ci portò a Genova. A Principe ci incolonnarono, e poiché non si restava dal discorrere e dal ridere e dal rumoreggiare, l’ufficiale che attendeva per accompagnarci su al reggimento ci diede il primo cicchetto, in piena regola: poche parole secche e non si sentì più uno fiatare. Attenti! Avanti, march!
– Le reclute – diceva la gente, e si fermava a guardarci: avevamo il bracciale, col nome del distretto, e un fagottino sotto il braccio: vestiti maluccio ché la roba buona s’era lasciata a casa. – I coscritti – dicevano i monelli e ci trottavano dietro. Via Carlo Alberto, piazza Di Negro, via Milano; eccoci alla caserma. Dei soldati di guardia, anziani, qualcuno ci motteggiò, ci diede il saluto di prammatica, quello che s’attendeva: – Cappelle!
Cappelloni! vi lasceremo la stecca! –
La stecca, nel ‘15, con la guerra che era appena agli inizi?… Hai voglia, caro mio!
Su, nelle camerate. C’erano già i graduati, che venivan dal fronte; i sergenti, che parlavano forte, autoritari, e noi stavamo davanti a loro intimiditi. I caporali ci aiutarono a vestirci. Chi li aveva mai visti certi indumenti come la fascia di lana e le pezze da piedi?
– Questa cos’è? Come si mette?
– Sta attento; si mette così.
Ci insegnavano bonariamente. Poi gli ufficiali, le prima istruzioni, il giuramento: la vita militare insomma, bella,
brutta, così, così. L’han fatta tutti: scuola a piedi, ginnastica, marce, riviste, “marco visita”, tre giorni di consegna (prigione no), il rancio che non si può mandar giù, che poi si manda giù, la cantiniera rosea e rotonda che sorride di dietro il banco a tutti quei ragazzi vestiti di tela con le buste a sghimbescio, goffi e lei così attillata…