Una scena raffinata quella che si presenta allo spettatore, una scena in bianco e nero, fortemente improntata ad un gusto liberty affascinante ed essenziale, mai sovraccarico; così come in bianco e nero si presentano i costumi delle protagoniste, le cui stoffe preziose sembrano avvolgere ed anticipare i diversi temperamenti e la differente gestione dei sentimenti.
Andata in scena per la prima volta nel 1902 al Teatro Lirico di Milano per l’interpretazione di un già famoso Enrico Caruso, l’opera ebbe come memorabili interpreti la grande soprano Magda Olivero e la altrettanto grande e rimpianta Daniela Dessì. Anzi Cilea pregò la Olivero di ripeterne l’interpretazione, cosa che avvenne nel 1959, performance che il compositore non fece in tempo a vedere, essendo morto proprio in Liguria, a Varazze, nel 1950.
L’azione è caratterizzata da una continua alternanza tra commedia e tragedia: Cilea lavora su terzetti e quartetti, espedienti che garantiscono velocità e vivacità di azione, specie nelle battute iniziali. Il Nostro, considerato con un poco di superficialità un “minore”, forse perchè compone nei difficili anni in cui si è alla ricerca dei continuatori di Verdi, è comunque un autore decisamente lirico e poco incline alla moda contemporanea dei toni aspri del verismo allora imperante: uno stile di musicalità che, anche se prevedibile, è sempre gradito all’orecchio, rappresenta un’ epoca e si inserisce a buon diritto nella storia dell’opera.
Il sipario si apre su una scena in divenire, l’allestimento frenetico e un po’ comico in un teatro di una rappresentazione, dove il direttore di scena, il buon Michonnet, si adopera per venire incontro alle capricciose esigenze degli artisti.
Un personaggio, questo Michonnet, che rivelerà interessanti risvolti psicologici e una rara nobiltà d’animo, in quanto, pur innamorato con poche speranze di Adriana, non ne ostacolerà il sogno d’amore, offrendole comunque la sua vicinanza: un profilo caratteriale abbastanza raro nell’opera lirica, dove le figure maschili in genere non spiccano per lealtà e coerenza.
Adriana, la protagonista, si presenta fin da subito con un ingresso da diva perfetta, in un sontuoso abito di scena, il gesto ampio e magnifico delle attrici del novecento, epoca in cui il regista Stefanutti ha voluto collocare l’opera, in aperto contrasto con la declarata modestia nelle sue parole : “io son l’umile ancella del genio creator, ei m’offre la favella, io la diffondo ai cor…”
Entra l’uomo da lei amato, il conte Maurizio di Sassonia, di cui l’attrice ignora l’identità, credendolo un alfiere del conte ( e qui si delineano fin da subito gli intrighi, gli equivoci e i sospetti di cui è pervasa la trama, in perfetto allineamento con i canovacci dell’ opera classica, che catturano l’attenzione dello spettatore attraverso le sottigliezze psicologiche che ne caratterizzano il percorso ). Lo stesso conte dà sostegno all’errata convinzione dell’amata chiedendole di favorirlo presso il conte di Sassonia: Adriana gli offre come pegno e conferma di un appuntamento ( a mezzanotte!) un mazzetto di viole.
Un clima del tutto passionale, ma non privo di spunti comici, pervade il secondo atto, nucleo centrale nella vicenda. Sul luogo dell’appuntamento si incontrano e dialogano i protagonisti dei triangoli amorosi: per primi la principessa di Bouillon e Maurizio. Lei, che sospetta l’esistenza di una rivale dal mazzolino di violette che il conte si è appuntato sul petto, riesce, complice la debolezza di carattere di lui, a portarglielo via. Durante il loro colloquio arriva il marito della principessa e la di lei reazione “ O Ciel! Mio marito! “ diventerà, da quel momento in poi, una classica etichetta delle storie di infedeltà coniugali.
A seguire l’incontro tra Adriana e Maurizio, che confermano il reciproco amore. E ancora quello cauto, sospettoso e ricco di strisciante pathos delle due donne, preludio ad una verità, prima percepita e poi crudamente rivelata alla principessa nel terzo atto, attraverso l’interpretazione particolarmente incisiva di “Fedra” che Adriana porge alla rivale.
Il balletto “Il giudizio di Paride”, un intermezzo elegante e piacevole, in linea con la tradizione caratteristica del teatro sette-ottocentesco, interviene a spezzare per qualche minuto la tensione del pubblico.
Nel quarto e conclusivo atto Adriana, non più sulle scene da tempo e intristita dall’assenza di Maurizio, riceve un cofanetto, in cui riconosce le viole appassite da lei donate a Maurizio.
Pensando ad un segno di addio le annusa lungamente e le butta nel fuoco. Quando Maurizio e Michonnet arrivano l’attrice è ormai preda del veleno contenuto nei fiori, inviati in realtà dalla principessa, una vendetta crudele. Adriana muore da grande attrice, prendendosi tutta la scena, tra profferte d’amore e visioni allucinate, mentre il quadro alle sue spalle che la raffigura si illumina e si colora: ella è entrata nell’immortalità.
Nell’allestimento in commento si distinguono le splendide voci femminili ( Barbara Frittoli si porge all’applauso finale del pubblico da vera star con un profondo inchino) e la loro indovinata presenza scenica, accentuata dalle doti recitative. Del tutto all’altezza le voci maschili. La ben diretta orchestra non tradisce lo stile melodico caro all’autore.
La spettacolo resta in scena al Carlo Felice fino a domenica 16 febbraio.
Elisa Prato