Dostoevskij, considerato il primo tra i massimi rappresentanti della letteratura russa ottocentesca, ha scritto un ciclo di opere in cui si è espressa la dolorante anima russa.
Al teatro arrivò solo indirettamente, con le riduzioni sceniche fatte in tempi recenti dei suoi più famosi romanzi, tra cui I fratelli Karamazov.
Partendo, come quasi sempre succede, da dolorosissime esperienze personali, lo scrittore racconta un’umanità complessa, contraddittoria, sconcertante, inventando una nuova scienza, quella della psicologia sotterranea, dell’uomo del sottosuolo, come lui stesso lo definì, l’uomo che vive in segreti angoli dell’anima, dove il bene e il male si mischiano e lottano fra di loro, lacerando psiche e cuore dell’individuo.
Qualcuno ha detto che chi delinque lascia quasi sempre una traccia decisiva perchè vuole essere scoperto, vuole le punizione.
Umberto Orsini è solo in scena, una cella grigia e buia, reale o psicologica? L’uomo parla con se stesso con toni drammatici, accesi, dolorosi, cercando, esigendo una verità, se serve davvero svelarla.
Una risata sarcastica scandisce ogni tanto il suo soliloquio, come a sottolineare la ormai palese inutilità di tanto interrogarsi, di tanto dolore.
Chi ha ucciso davvero Fedor, il dissoluto padre dei fratelli Karamazov, chi ha impugnato l’arma o chi ha indotto ad impugnarla, l’assassino putativo? Nello scorrere dello spettacolo vi sono spesso accenni ad episodi evangelici, visti sotto una prospettiva di valutazione realista, tutta slava.
Ricorre la negazione di una fede miracolistica quale non fede: gli uomini vogliono soprattutto il pane, poi arriva l’esigenza spirituale.
Bisogna morire per rinascere, come il seme interrato che se resta integro non serve a far nascere una nuova pianta.
Il tempo è un grande nemico: questa frase sembra aprire ai dubbi dell’età senile, quando l’anziano si volta indietro e riemergono inesorabili possenti dubbi, amarezze, rimorsi ma anche l’impossibilità di cambiare il passato.
E’ allora che la verità emerge, gridata come ammissione di colpa. L’uomo Ivan esige una sentenza, forse inutilmente attesa, forse impossibile da pronunciare. La catarsi comune in Dostoevskij e negli autori russi, ancora tipicamente slava, è la pubblica confessione. Un viaggio attraverso la coscienza dell’uomo che si confronta con i propri alterni stati psicologici, cercando di indagare e di svelare, se esiste, il criminale nascosto in se stesso.
Il personaggio Ivan Karamazov parla e si parla ancora una volta, sente di non aver esaurito il proprio compito: cerca di esprimere la complessità del suo pensiero, di chiarire, soprattutto a se stesso, la dinamica del parricidio.
La recitazione del sempre credibile Umberto Orsini è, come vuole il personaggio, sopra le righe, vola alto per cedere alla fine ad una conclusione prevedibile.
Lo spettacolo resta al Teatro Duse fino a domenica 29 marzo. ELISA PRATO