Lino Guanciale interpreta con passione la pièce ispirata al famoso film di Petri
In scena al Teatro della Corte di Genova fino a domenica 28 aprile, per la produzione di Emilia Romagna Teatro Fondazione, La classe operaia va in paradiso è ormai un “testo” classico. Con il film omonimo del 1971 diretto da Elio Petri, su soggetto e sceneggiatura dello stesso Petri insieme a Ugo Pirro, questa pièce teatrale si confronta e un po’, forse, si scontra.
Già all’uscita del film originale, vincitore l’anno successivo della Palma d’Oro a Cannes, le polemiche non erano mancate. La pellicola sembrò scontentare tutti: gli industriali, rappresentati come feroci sfruttatori; i sindacalisti, che apparivano spesso come collusi con i padroni; e gli studenti, accusati di essere troppo teorici e astratti rispetto alla realtà degli operai.
La storia è nota e vede il protagonista Ludovico Massa, detto Lulù, al lavoro presso la fabbrica lombarda B.A.N. È un operaio di circa trent’anni, ha una ex moglie e una nuova compagna da mantenere, è uno stakanovista e i suoi ritmi da uomo-macchina lo portano a guadagnare a cottimo più degli altri colleghi, che naturalmente lo odiano.
I padroni della fabbrica lo citano come un esempio, sebbene Lulù, in fondo, non sia felice e, nella sua estrema stanchezza, soffra di quell’alienazione che lo rende assente nei rapporti sociali e simbolicamente impotente in quelli famigliari.
Un incidente sul lavoro, che gli causa la perdita di un dito, lo risveglia dal sonno della coscienza di classe e, insieme, gli distrugge la vita. Improvvisamente ascolta, fuori dai cancelli della fabbrica, gli slogan degli studenti, che si contrappongono alle posizioni più moderate dei sindacalisti.
Dopo lo sciopero e lo scontro con la polizia, apice di una parabola tipica degli anni ’70, Lulù viene licenziato e abbandonato da tutti: dalla compagna, dagli studenti che lo accusano di individualismo e dagli operai.
Quando, a seguito di una mobilitazione, riavrà il posto alla catena di montaggio, racconterà agli altri operai il sogno in cui un anziano ex lavoratore, Militina, ricoverato in manicomio, spacca un muro a testate: al di là di questa barriera, immersi nella nebbia, stanno tutti loro.
Nella versione teatrale, curata da Claudio Longhi con lo scrittore Paolo Di Paolo, vengono innescate un’operazione metalinguistica e una messinscena critica. L’idea è buona e rivela una certa originalità, anche se la sua resa – con grotteschi spiazzamenti – può a volte apparire confusa e non sempre di facile lettura per il pubblico.
Essenzialmente l’opera classica di riferimento viene trattata “in maniera laboratoriale”, come un materiale che si presti alla ricerca di un confronto, se non di una connessione, tra passato e presente.
La storia di Lulù Massa, ieri interpretata da Gian Maria Volonté (Nomination al Festival di Cannes, Globo d’oro come migliore attore e Menzione speciale “per la sua interpretazione” nel film) e oggi dal proteiforme Lino Guanciale (Premio Anct 2018 per la sua interpretazione e Premio Ubu 2018 come miglior attore, sempre in quest’opera, in tournée dall’anno scorso), si intreccia con le vicende che hanno portato alla nascita del film stesso.
In poche parole, ai protagonisti della narrazione si affiancano i personaggi che l’hanno creata, cioè il regista Elio Petri (Nicola Bortolotti) e il co-sceneggiatore Ugo Pirro (Michele Dell’Utri), mentre dibattono, abbastanza rigidi nei rispettivi ruoli da intellettuali, la loro visione.
Come se non bastasse, si aggiunge un terzo piano di lettura e rappresentazione, che vorrebbe restituire il contesto socio-economico-culturale dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, attraverso qualche spettatore che dibatte a scena aperta dalla platea e il riferimento ad alcune figure della letteratura.
Le scene di Guia Buzzi riescono agilmente, e con pochi elementi, a rendere la movimentazione delle macchine e l’atmosfera uggiosa della fabbrica, soprattutto attraverso i nastri trasportatori, ben utilizzati in certi momenti, in cui si inseriscono interpretazioni al rallenty. Qui anche gli operai vengono trasportati senza poter scegliere la direzione, totalmente dipendenti da un meccanismo alienante. Il solo elemento di contrasto, verticale, è l’opprimente carroponte, simbolo del controllo e del potere sovrastante, pronto a colpire alle spalle.
Il colore blu e grigio domina spesso le ambientazioni. Blu è la divisa da operaio, blu è il montone in pelle del sindacalista, blu è la luce emessa dalla televisione, quella che pervade le sequenze domestiche (nel film, l’ipnotismo provocato dal piccolo schermo si coglieva proprio nei bagliori azzurrognoli sui volti dei componenti della famiglia).
I video di Riccardo Frati appaiono come un collage di documenti storici raccordati a sequenze contemporanee, forse con alcune ripetizioni di troppo (in particolare nei fermo-immagine). Le musiche seriali, minimaliste, barocche – nel film erano state composte da Ennio Morricone – e gli arrangiamenti si devono, invece, a Filippo Zattini.
Voce fuori dal coro, che si muove tra platea e palco, è il “menestrello” che canta le canzoni di Fausto Amodei (Cantacronache), come “Il tarlo” (1963), una ballata metaforica sull’ambizione dell’insetto xilofago, che vuole divorarsi un mobile intero, accelerando il proprio ritmo di produzione, ma morendo di infarto; oppure “La taylorizzazione” (1972), che dichiara come “Crescono i prezzi, cresce l’affitto / Crescono gli obblighi di chi lavora / … Sempre più soldi e più capitali / In mano a sempre più pochi padroni”; o la canzone finale, “Ninna nanna del capitale” (1965), in cui, mentre tutti dormono, di continuo “si rinnovano i vecchi processi / per cui i soldi producon quattrini e il capitale matura interessi”.
Al di là delle “canzoni didascaliche”, apprezzabile è la citazione, tra le altre, di “Questo è il gatto con gli stivali” (1964), omaggio al poeta Edoardo Sanguineti, che insegna al figlio Alessandro come dietro a ogni cosa della storia si celi l’onnipotenza del denaro.
Insomma, l’extratesto dello spettacolo è abbondante, se non eccessivo, e si avvale anche di epigrafi scritte, come quella programmatica iniziale, che riporta una riflessione di Paul Valéry sulle “convenzioni osservate” dal mondo sociale, che niente altro sarebbero se non “pure finzioni”.
I suoni sono martellanti e riecheggiano a ripetizione: le sirene della fabbrica; gli annunci diffusi quotidianamente all’inizio della giornata (“Lavoratori, buongiorno. La direzione aziendale vi augura buon lavoro. Nel vostro interesse, trattate la macchina che vi è stata affidata con amore. Badate alla sua manutenzione. Le misure di sicurezza suggerite dall’azienda garantiscono la vostra incolumità. (…) e non dimenticate che macchina più attenzione uguale produzione. Buon lavoro”); gli ordini del caporeparto (Simone Francia), che sorveglia i dipendenti dall’alto, con il cronometro alla mano; i megafoni dello studente (Eugenio Papalia) e del sindacalista (Simone Tangolo), che fanno a gara a chi urla di più; gli spari (preavvisati in sala!) e il rumore della catena di montaggio, mentre si suonano dal vivo diversi strumenti, dal pianoforte al violino solista.
Le donne stanno sullo sfondo, lontane ancora dalle emancipazioni femministe: l’operaia Adalgisa è interpretata da Donatella Allegro; la compagna di Lulù, Lidia (nella parte che fu di Mariangela Melato) da Diana Manea, mentre Franca Penone impersona inspiegabilmente il vecchio Militina (nel film era Salvo Randone), l’operaio licenziato per motivi politici, che perde il lume della ragione in quanto internato, ma dà fiato a una sorta di voce profetica.
La coesione dell’apparato poggia sulla solida interpretazione di Lino Guanciale, che si prodiga in una prestazione che si potrebbe definire “atletica”, da tutti i punti di vista: sia perché lo spettacolo è molto lungo (più di tre ore, compreso l’intervallo), sia perché richiede in lui un notevole sforzo fisico, nella gestualità (la simulazione chapliniana del suo lavoro alla macchina della produzione, i balzi effettuati in varie circostanze, che ricordano il suo passato giovanile di ex campione di rugby) e nell’uso della voce su diversi registri: urlato (fino a diventare incomprensibile), rauco e bestiale (da uomo-macchina) e ridimensionato (dopo l’incidente).
Inoltre, occorre ricordare che la proposta al regista Claudio Longhi di mettere in scena, insieme al gruppo di lavoro consolidato nel tempo, una versione teatrale del film di Elio Petri è sua. Questo progetto è stato “una scelta d’istinto”, perché, come ha dichiarato l’attore, che è pure un fine e lucido intellettuale, “vorrei che questo Ludovico Massa fosse riconoscibile anche come uomo del proletariato attuale, che si porta addosso ferite simili”.
In tal senso, non si tratta di un’operazione “vintage”, ma di un percorso intrapreso secondo un principio brechtiano, per cui, per vedere meglio le cose, sarebbe più efficace guardarle da lontano. Fare teatro politico oggi significa, per persone come Guanciale, sentire insito nel mestiere di attore l’impegno nella formazione del pubblico. Forse l’opera, pur con qualche pesantezza, ha colto nel segno, dato che si sentivano dei giovani “workaholic” da pc uscire stremati dal teatro, la sera della prima, riflettendo sull’attualità del messaggio.
Dopotutto, il Paradiso non è che nebbia, nebbia densa della Padania.
Linda Kaiser