In prima nazionale al Teatro Modena va attualmente in scena “Solaris” di David Greig, dal celebre romanzo di Stanislaw Lem, in seguito tradotto nei film omonimi di Andrej Tarkovskij e Steven Soderbergh.
Un testo perfetto per esplorare la fantascienza in teatro, proposito espresso da Davide Livermore mentre assumeva la carica di direttore del Teatro Nazionale di Genova.
L’astronauta e psicologa Kevin arriva alla stazione spaziale che ruota intorno al pianeta Solaris per riportare indietro i colleghi che la occupano in quanto sono scaduti i settecento giorni (o forse sono ancora seicentonovanta?) della durata prevista per la loro permanenza.
La giovane domanda per prima cosa dove si trovi il suo ex docente. L’accoglienza da parte dell’equipaggio non è delle più affettuose: le persone non appaiono contente di vederla e sembrano manifestare qualche problema di sfaso nella comunicazione.
Kevin scopre ben presto che nella stazione vivono altresì presenze dall’aspetto umano generate dall’oceano che riveste la superficie del pianeta, una distesa di idrogeno liquido che ha anche un potere distruttivo. E assai particolare è il meteo dell’astro: diventa di colore rosso se fa caldo, di colore blu se fa freddo.
Solaris è un pianeta vivente che pare considerare quali attentatori della sua esistenza gli esseri umani che vi approdano, come se fossero virus malefici: per capire le loro vere intenzioni li sottopone ad interrogatori, semplici ma spiazzanti, sui loro desideri e materializza gli stessi sotto forma di fantasmi.
Un pianeta pulsante che, infine, desidera stabilire un contatto vero ( il contatto!) con i suoi visitatori e per questo li costringe ad una lenta opera di introspezione.
Durante tutto lo spettacolo Solaris si mostra in tutta la sua placida bellezza attraverso il fluire di luminose e rilassanti immagini trasmesse da un sovrastante oblò: un video dove a tratti compare la figura del defunto professor Gibarian, membro della stazione spaziale, magistralmente resa dall’attore Umberto Orsini: immagini ancor più di impatto in quanto in contrasto con la perenne penombra dell’astronave.
Da tempo la scrivente ammira stupita le splendide scenografie che accompagnano gran parte degli spettacoli di prosa e lirici, allestimenti che assurgono a buon diritto ad una forma autonoma di arte che dovrebbe avere maggiori riconoscimenti.
Questa rappresentazione delinea un notevole esempio di tale arte, dovuto a Simone Mannino: gli spettatori che entrano hanno la sensazione di trovarsi all’interno di una vera astronave, sconfinante in platea, dove due degli attori sono presenti ed operanti in occupazioni di normale vita quotidiana ( guardano uno schermo, sorvegliano una culla) .
L’interpretazione pregevole di Federica Rosellini, Giulia Mazzarino, Sandra Toffolatti e quella insigne di Werner Waas e Umberto Orsini riportano l’attenzione sul fatto che il testo proposto dal regista Andrea De Rosa sia abbastanza lontano dal romanzo, con qualche interrogativo sulla necessità di sostituire il Kevin uomo con una donna di tendenze omosessuali.
La durata è di un’ora e un quarto, con un giusto ritmo che tiene desta l’attenzione dello spettatore fino al sorprendente finale.
I video nell’oblò sono di D-Work con immagini fornite dall’Agenzie Spaziale Europea, le belle musiche sono di G.U.P. Alcaro, le luci di Pasquale Mari. Coproduttore il Teatro di Napoli.
Lo spettacolo, ora presentato nella traduzione di Monica Capuani, è andato in scena a Melbourne ed Edimburgo con la regia di Matthew Lutton; rimane al Teatro Modena fino al 9 maggio, giorni di riposo 4 e 5 maggio. Elisa Prato