Ha debuttato venerdì scorso al Carlo Felice “Un americano a Parigi“, musical ispirato all’omonimo film del 1951 per la regia di Vincente Minnelli, con Gene Kelly e Leslie Caron. Tratto da una partitura del 1928 di George Gershwin, il film, allora pluripremiato con molti Oscar, fu uno dei primi tentativi di integrare la commedia musicale con la vita, affinchè uscisse dal mondo dello spettacolo e della pura rivista, come accadeva nel musical degli anni cinquanta, che puntavano alla scena madre del successo finale. Nè il pittore Jerry nè Lise sono professionisti dello spettacolo: ballare e cantare sono l’espressione dei sentimenti di ognuno.
Canto e danza acquistano una estrema spontaneità, mentre in passato erano intermezzi senza legami con la trama del film; così Jerry, felice per aver ottenuto il primo appuntamento da Lise, percorre ballando la Avenue dell’Opera e incontra cantando l’amico Adam.
Con Minnelli la rappresentazione non è più solo di attori professionisti al centro del palcoscenico, ma entrano nel canto e nel ballo anche i tavolini di un caffè, un negozio, la strada, le immagini tanto care agli impressionisti.
Un’opera di “civilizzazione” del musical che coniuga tanto la tradizione dell’anteguerra quanto gli sforzi di rinnovamento della tragicommedia in danza e musica, o meglio, della favola umana trasferita nello schermo.
Solo molto più tardi, nel 2014, a Broadway, nasce la versione teatrale di questa commedia musicale. Jerry si innamora istantaneamente di Lise, ma la ragazza pare non ricambiarlo. Con il fiuto degli innamorati il nostro pittore sente che vi è una ragione estranea al sentimento, che si rivela nello svolgimento dei fatti.
Che dire di questo nuovo allestimento del Carlo Felice? Sembra che la parola d’ordine sia quella dell’unione, da quella delle diverse nazionalità dei due giovani innamorati protagonisti alla commistione linguistica tra il recitato in italiano e le canzoni in inglese, nella loro veste originaria. E ancora unione nei diversi aspetti delle arti; supportati dalla musica di Gerswin gli interpreti recitano e cantano, mentre gli spettatori si godono esibizioni di danza di ogni tipo, dal balletto classico al tip tap.
Come proposto dal film, i protagonisti sottolineano con il canto e la danza la situazione che vivono e con lo stesso mezzo esteriorizzano il sentimento al momento provato. Il pianoforte, quale omaggio a Gerswin, è costantemente in scena.
Sullo sfondo si susseguono in continuazione quadri di pittori impressionisti legati all’azione, mentre sul palcoscenico angoli di gusto degassiano completano il vissuto degli interpreti. Uno sforzo ragguardevole di far immergere il pubblico nell’atmosfera parigina, che tanto colpì “quell’americano a Parigi” che fu proprio Gershwin, quando nel 1928 perfezionò in quella città i propri studi di compositore: fatta di quartieri, voci, rumori, del clamore degli avvertisseurs, gli speciali clacson usati dai taxi.
L’effetto risulta un poco attenuato dal palcoscenico, che inevitabilmente tende a sottolineare l’aspetto intimista della vicenda, almeno nel primo atto. L’azione scoppia nel secondo atto, dove gli splendidi balletti incantano lo spettatore: il particolare effetto colore del ballo in maschera ricorda l’espediente del regista Minnelli di inserirlo in bianco e nero nell’omonimo film, affinche nulla fosse tolto alla coreografia finale.
Non sono esclusi, considerato che cronologicamente lo spettacolo è ambientato alla fine della guerra, spunti di gusto patriottico e politico, rivelati dalla storia personale di Lise, già resa adulta dal conflitto, che sa bene che “la vita non è un film americano.”
An American in Paris resta al Carlo Felice ancora sabato 20 alle ore 20 e domenica 21 alle ore 15,30. Interpreti principali Giuseppe Verzicco e Marta Melchiorre, per la regia di Federico Bellone, coreografo Fabrizio Angelini, direttore dell’orchestra Daniel Smith.
Elisa Prato