Arco di Vittoria e importanti innovazioni tecniche, un movimento, che oggi mette di fronte gli architetti italiani a sostenere tesi diverse
Arco di Vittoria e le importanti innovazioni tecniche, non troppi sono i giovanissimi che, in Italia, hanno ceduto all’incanto del potente lirico architetto Sant’Elia – si noti che dico potente lirico – che disegnò, con fervida fantasia non disgiunta da una maestria notevole, visioni di moderna poesia costruttiva: officine impossibili che, nei suoi grafici, ci danno la sensazione della loro attività pulsante.
Sant’Elia avrebbe fatto molto anche come costruttore ma è morto troppo giovane, lasciando, dell’opera sua, appena l’inizio: cioè quella parte che, in qualsiasi artista, è sempre difettosa per eccesso.
E dal lirico Sant’Elia progettista di castelli fantastici deriva quasi tutta quell’architettura che si fa chiamare modernissima italiana e mondiale.
A questa corrente fa contrasto un’altra corrente, quella dei tradizionalisti ad oltranza: scettici che vedono tutto esaurito nei quaranta secoli che, dalle civiltà delle dinastie faraoniche, corrono ai giorni nostri; accidiosi che si accontentano di rimpolpettare ciò che già è stato fatto e rifatto con l’unica tema di sporcare il lago limpido della classicità con una goccia di, dioliberi, “modernismo”.
Piacentini, il costruttore del nostro Arco, ha saputo tenersi immune da queste due correnti – la prima, oggi, quasi militarmente inquadrata, la seconda, in balia degli avvenimenti – e ha fatto suo il motto dell’antico (che poi è un verso di Dante usato in senso lato): Non son l’antico, ma di lui discesi.
Le sue opere sono tutte di innovamento: primo tra i nostri architetti egli ha compreso come sia indispensabile mantenere degli antichi tutti quegli elementi che ancor oggi hanno in loro qualche vitalità e come sia pure necessario soddisfare alle esigenze economico-tecniche e apportare conseguentemente alcune innovazioni.
Oggi la nostra arte italiana sarà salva se gli artisti di tutte le arti comprenderanno che solo si crea – non è un paradosso – innestando nuovi germogli sulla sacra quercia della tradizione latina.
Il nostro Arco della Vittoria risponde a questi concetti: è dunque un’opera fresca di attualità e insieme forte di romanità.
È un’opera che è stata criticata perché oggi si vorrebbe onorata la vittoria dei velivoli e delle grosse artiglierie da opere di assoluta ispirazione moderna (magari un timone in cemento armato alto sessanta metri, dice Bardi) ma giustamente Cesare Marchisio ha notato in Il Giornale di Genova che: “il Monumento doveva onorare i Caduti.
Doveva anche esaltare la Vittoria nata dal loro sacrificio; doveva avere il carattere di un Tempio sacro ai riti della Patria, ma doveva sorgere in una piazza piena di sole e di luce posta nel centro di una Città piena di traffici; celebrava dei Morti, ma un popolo che cammina sa essere forte e sereno di fronte al sacrificio ineluttabile e glorioso, e ne trae energie nuove per procedere innanzi.
Di qui l’Arco, creazione di quell’arte eminentemente collettiva che è l’architettura, ed espressione tipica dell’architettura di Roma: simbolo, anzi, di romanità, cioè di serena fortezza. Unito, in Roma, all’idea del trionfo, fattosi diretto e intimo tale rapporto, l’Arco diventa, della gloria di Roma, espressione solenne, e si disposa con la scultura per mezzo di quelle decorazioni plastiche che sono peculiari appunto dell’arco trionfale romano e che diedero luogo a quell’arte storica che è il ramo più spiccatamente originale dell’arte figurativa romana.
Soltanto l’Arco, quindi, poteva riassumere in sé la esaltazione del sacrificio e della vittoria e in pari tempo rispondere appieno alle complesse esigenze d’ambiente.
Concezioni diverse, tradotte in monumenti nelle piazze d’Italia e di fuori, sono sorte ovunque, ma tutte, in forma più o meno grave, si sono tosto rivelate imperfette e caduche, né certo mai hanno raggiunto la chiarezza e l’altezza di linguaggio dell’Arco di trionfo.
Un canto v’è – è vero – di natura profondamente diversa, altissimo, esaltazione sublime della guerra e della vittoria, del sacrificio e della gloria del Fante d’Italia, ma esso, non ancor del tutto realizzato, è stato unicamente concepito pel luogo istesso ove il dramma eroico si svolse: in quell’ambiente solo esso deve levarsi – e si leverà – formando tutt’una cosa col luogo sacro: nell’interno di una Città esso non potrebbe sussistere”.
È perfettamente quello che noi pensiamo e perciò non possiamo consentire neppure con chi nega valore e quest’opera in quanto non è tale quale l’avrebbero concepita i costruttori di archi per eccellenza: gli artisti dell’epoca imperiale.
No: oggi non si può costruire come si costruiva diciotto o venti secoli fa; ma d’altra parte non ci si può sbarazzare d’un colpo, senza nostro danno, di quaranta secoli di esperienze.
Virgilio avrebbe raggiunte le vette che ha raggiunte senza Omero? E Dante senza Virgilio? Michelangelo senza due secoli di arte purissima alle spalle, arte che aveva tenuto in somma considerazione tutto ciò che già- prima si era fatto?
MARCELLO PIACENTINI – L’Arco ai caduti genovesi
Marcello Piacentini ha immaginata l’opera sua sobria di linee, austera, di effetto imponente specialmente nelle due facciate principali.
Il timpano decorato ad altorilievo e coronato dall’attico che porta le scritte commemorative è sorretto da venti colonne che sono disposte, sedici all’esterno e quattro all’interno, a copertura di dodici pilastri in cemento armato (che lega tutta la struttura dell’Arco e la rende immune da qualsiasi movimento anche sismico) ricoperti di travertino che reggono il forte peso della trabeazione e dell’attico.
Si formano così quasi dei pilastri compositi che ci richiamano motivi del romanico. Le sedici colonne esterne, che reggono le statue, hanno funzione eminentemente estetica; è assurda la critica di chi si scandalizza, perché queste colonne non reggono un peso equivalente alle loro possibilità: sono perciò inutili? Ma allora, di grazia, è utile, in questo senso, l’Arco?
È una pura opera d’arte che ha valore commemorativo e in essa la fantasia dell’artista scevra di qualsiasi preoccupazione di carattere pratico ha avuto libero cielo al suo volo.
Si sente che con quest’Arco Marcello Piacentini è giunto alla completa maturità. In ogni sua parte non vi è nessun elemento che possa un giorno spiacere all’autore; tutti i particolari sono stati sfrondati di quel poco che, nel bozzetto vincitore del concorso, poteva esserci di sovrabbondante: l’opera così com’è esce snellita da queste lievi modificazioni e acquista una austerità, che manca in genere agli archi eretti nel periodo moderno: da quello mastodontico di Parigi a quello di Milano.
L’insieme che, in assoluta semplicità di linee, giunge al maestoso è moderno, e appunto per quella assoluta semplicità dei motivi ornamentali architettonici resta molto più agevole parlare dell’insieme dell’opera che non dei singoli particolari: potremmo tuttavia citare la purezza dei capitelli e delle colonne che reggono le statue e la indovinatissima e originale sistemazione del monumento con i semplici ma severi ingressi alla cripta sopra il livello della piazza.
Il più vicino collaboratore del Piacentini è Arturo Dazzi, buon carrarese che, con l’architetto romano, ha vinto il concorso per quest’Arco (ricordo incidentalmente qui i concorrenti genovesi Mazzoni, Galletti, De Albertis, Messina e Bifoli); egli è l’autore del grande fregio che in doppia fila fascia il timpano e delle otto statue delle fronti principali.
Particolare della fronte principale dell’Arco con sculture di Dazzi
ARTURO DAZZI e MARCELLO PIACENTINI
Il Dazzi autentico combattente e mero artista deve avere scolpiti questi grandi lastroni di marino con ancora negli occhi impressa una nitida visione della guerra.
Egli non ha voluto, di questa guerra, rendere quel lato che, agli inconsapevoli, può farla parer bella, facile, magari romantica; né ha voluto, e forse in parte lo ha fatto inconsciamente, dare una visione sopratutto sincera.
Niente veli pietosi: ha battuto la strada che oggi in Italia batte anche un altro scultore che è proprio dei nostri: un genovese: Eugenio Baroni, che nel suo monumento al fante ha messa tutta la sua anima di italiano e il suo strazio di uomo.
ARTURO DAZZI – Assalto alpini (particolare)
Particolare dell’Arco con due statue e fregi di Arturo Dazzi
Dunque, Arturo Dazzi ci ha dato della guerra una fedele rappresentazione e noi gliene dobbiamo essere grati: chi non si commuove davanti a questo giovane abbattuto che sbalza dal fregio dell’Assalto Alpini?
E quante altre cose ci dicono questo fregio della Croce Rossa e questa Messa al campo che è tutta un delicatissimo canto?
È una scena vivissima; espressivo l’offerente ispirato che è compreso della spiritualità del suo atto e gli ufficiali raccolti intorno: particolarmente questo inginocchiato e con il capo tra le palme delle mani: non è certo un giovane si comprende dalla corporatura, e non è certo solo preso dal rito mistico, in lui c’è tutta la sofferenza di un marito e tutta la pena di un padre che pensa ai suoi figli che, forse soffrono più di lui: è l’uomo che ha fatto la guerra.
Ma è meglio passare ai pezzi del fregio in cui si rivelano meglio tutte le virtù plastiche del Dazzi.
Il Genio Pontieri e il Corpo a corpo (dov’è la molto espressiva effigie di Mussolini) sono pieni di vita; ma i pezzi che più mi paiono essere ricchi di pregi artistici sono: la Cavalleria, l’Assalto Alpini, la Marina, l’Aviazione e l’Artiglieria.
Nel fregio la Marina vi sono alcuni volti bene delineati e tutto il fregio è ricco di movimento; l’Aviazione, che insieme alla Marina decora il lato verso il Bisagno è pure bene studiata: da notarsi il velivolo che sta per sollevarsi dal suolo: modernissima la concezione e sorprendente la semplicità di mezzi con i quali il Dazzi ha raggiunto il suo scopo. Qui, come e più che negli altri fregi, egli e riuscito a dare prospettive e scorci molto efficaci in semplice altorilievo: con poche figure sbozzate nei vuoti, le quali contrastano abilmente con quelle bene delineate del primo piano, egli ci dà l’impressione di una lontananza sfuggente.
I due fregi che più possono impressionare, chi con la scoltura abbia qualche consuetudine, sono: la Cavalleria e la Artiglieria.
ARTURO DAZZI – Cavalleria (particolare) Mitraglieri (particolare)
In questi due lastroni scolpiti c’è tutto un artista: potente nella sua modernità, questi magri cavallini tutti muscoli e tendini sono impareggiabili, non ce n’è uno che rassomigli ad un altro, tutti sono in posizioni differenti, tutti tesi nello sforzo di salire quelli dell’artiglieria, superbi di loro nobiltà quelli della cavalleria.
Fronte dell’Arco verso il Bisagno con quattro statue del De Albertis e due fregi del Dazzi Anche Dazzi, come Piacentini, è sintetico nelle sue creazioni, anch’egli ispiratosi alle fonti della romanità, è ricco di quella virilità ch’è necessaria a chi voglia cantare un poema eroico.
E sovrabbonda, questa sua romanità, modernizzata, nelle otto statue delle due fronti principali del monumento: basti quella riprodotta in copertina.
Edoardo De Albertis ha scolpito per l’Arco otto statue che non sono certo consone al monumento come quelle del Dazzi.
È sorprendente che si siano incontrati due artisti, come Dazzi e Piacentini, nati per intendersi ma è impossibile pretendere che un terzo si aggiunga a loro.
EDOARDO DE ALBERTIS
(Da un disegno inedito di Plinio Nomellini)
Edoardo De Albertis, ormai da trenta anni s’è formata una sua personalità e nessuna ragione lo può far uscire da quella strada.
Chi ricorda quella madre (1909?), che dal De Carolis fu riprodotta in xilografia, e veda queste statue può ben dire che il De Albertis s’è evoluto ma non potrà mai sostenere che egli abbia cambiato: è pur sempre facilmente riconoscibile.
E questa a noi sembra la miglior lode che oggi, in tempi di continue rivoluzioni e conversioni artistiche, si possa fare ad uno scultore.
Delicatissimo artista questo rude zeneize che piuttosto che alle fonti della latinità si ispira alle fonti dell’arte greca; artista che contrappone alla forza di Dazzi una grazia tutta sua, personale e attuale di un sano modernismo.
Le sue statue celebrano la pace: quattro (quelle della fronte verso via Malta) vogliono simboleggiare il ricordo che la Patria conserva degli eroi morti combattendo (le spoglie del condottiero) e le quattro verso il Bisagno raffigurano la poesia eroica, la poesia georgica, la mietitura, l’aratura, insomma le arti nobili della pace.
EDOARDO DE ALBERTIS – La poesia georgica e l’aratura
Quattro delle statue di EDOARDO DE ALBERTIS (Schizzo di Luciano Lombardo) Pure del De Albertis è il Cristo che sta sospeso sull’altare di rosso di Levanto della cripta.
Giovanni Prini, pur egli ligure (ma oggi trasferitosi a Roma) già altre volte fu collaboratore del Piacentini. Per quest’Arco egli ha fatti i due lunettoni, quattro fame, un San Giorgio e uno stemma di Genova.
GIOVANNI PRINI
Migliori ci sembrano le fame e i due lunettoni.
Il Prini, che fino ad oggi conoscevo come finissimo scultore di piccole cose qui ha affrontato l’esecuzione di due lunette (sette metri e mezzo di diametro) che certo non sono lavori di poca importanza.
In essi ha rappresentato il Lavoro dei campi e il Lavoro industriale: intorno al bordo delle lunette si hanno rispettivamente le scritte:
Salve Magna parens frugum Saturnia tellus magna virum [Salve terra di Saturno, grande genitrice di frutti e di uomini, n.d.r.] e Pacis opes ita alit virtus iam vivida bello. [Così alimenta le opere di pace il valore già vigoroso nella guerra, n.d.r.]
GIOVANNI PRINI – Il lavoro industriale
Begli effetti plastici non disgiunti da una bella forza spirituale egli ha saputo ottenere specialmente nella figurazione del lavoro georgico; i due bovi, la madre che insegna al figlio le azioni eroiche del padre e qualche altra figura hanno particolare valore.
Anch’egli sanamente moderno ottiene nei suoi altorilievi bellissimi effetti; specialmente nelle quattro fame delicate e finite con quell’accuratezza che fanno del Prini un originale artista, troviamo particolari pregi.
GIOVANNI PRINI – Vittoria
Così quattro artisti moderni hanno pagato il loro tributo alla nostra Grande Guerra e Genova può essere gloriosa, di un Arco che la rende degna erede della romanità, che, specialmente attraverso í ruderi di Luni, sempre le fu ed è presente.