Béatrice et Bénédict. Il francese Hector Berlioz (1803 – 1867) ha visto nel teatro musicale uno strumento per realizzare la sua musica, un insieme di tradizione e di rinnovamento di stile mediante varietà nell’orchestrazione, strumenti dell’epoca, un insieme vincente di musica antica e moderna.
Una bella e scorrevole Ouverture apre quest’Opera-comique in due atti, con libretto scritto dallo stesso Autore, che la definì ” un capriccio, scritto in punta di spillo”.
Un pezzo giocoso, con una trama quasi inesistente, liberamente ispirato dal titolo shakespeariano “Molto rumore per nulla”, al quale si aggiunge un personaggio comico, Somarone (in italiano Somaro!) utilizzato dal regista come una figura che lega la storia.
Per quanto riguarda il vero protagonista, cioè l’amore, ci si chiede perchè Berlioz, già intenzionato a scrivere quest’opera nel 1833, abbia meditato per quasi un trentennio prima di portarla a termine senza però mai desistere.
Il vissuto dell’uomo, che non ha mai trovato pace nella vita sentimentale (rifiuto in primo tempo della futura moglie, l’attrice Harriet Smithson, la separazione dalla stessa, una nuova relazione poi regolarizzata con le nozze) ha decisamente influito su questo tema che lo rapiva e lo tormentava tanto da diventare l’ultimo tema trattato della sua vita artistica, una sorta di testamento scritto con l’ironia che spesso caratterizza i veri grandi, persino nella visione retrospettiva dei propri non felicissimi percorsi.
D’altra parte cosa c’è di più misterioso, irrazionale ma coinvolgente di questo
sentimento? Tutta l’opera riguarda l’amore nella sua fluttuazione, amore che arriva quando arriva senza una ragione, ma dal quale vale la pena di lasciarsi avvolgere.
Claudio ed Hero credono nell’amore per la vita, infatti stanno per convolare a giuste nozze.
Béatrice e Bénédict si amano ma di un amore celato e provocatorio, fatto di battute al vetriolo, ammesso solo a se stessi.
Una psicologia un filo contorta scorre tra i due che si amano ma che necessitano dell’aiuto di qualche astuzia altrui per fare sbocciare il sentimento.
Bénédict è ben deciso a non sposarsi perchè è un donnaiolo, perciò ha paura di incappare in un tipo di donna da lui ben conosciuta, debole e cedevole alle lusinghe: quando apprende dalle astute parole di don Pedro che la fanciulla è innamorata di lui quanto onesta cede immediatamente al sentimento. Immortalità della doppia morale.
Entrambe le coppie si sposano, anche se il finale non esclude qualche colpo di scena dal quale lo spettatore comprende che i battibecchi tra i due non più riluttanti sposi sono solo in pausa e ricominceranno… domani.
Le scene sono originali, tendenzialmente moderne con l’ eccezione del lussureggiante giardino: un dispendio di mezzi e di energie nonchè di perizia dei tecnici, anche se forse la marcata simbologia non è facile da comprendere subito.
E talvolta, tra lo sforzo di seguire il canto e la recitazione in francese e dare un significato ai simboli, si rischia di perdersi la bellezza della musica innovativa.
Poetico l’incontro di Adamo ed Eva tra i verdissimi alti fusti di un onirico Eden ( l’inizio idilliaco delle storie d’amore?) seguito da un repentino colpo di scena, il calar di una rete e lo scempio delle piante, che riporta alla realtà delle difficoltà che toccano anche il migliore dei sentimenti.
Per dirla con Ivano Fossati… “la costruzione di un amore spezza le vene delle mani, mescola il sangue col sudore, se te ne rimane.”
Un plauso al figurante che interpreta magistralmente un simpatico gorilla, che vogliamo vedere come simbolo di libertà e di libertinaggio, ai quali cerca di attirare gli uomini e viene clamorosamente respinto da Bénédict.
Gli interpreti sono decisamente tutti bravi: impressiona la voce eccezionale di Cecilia Molinari nei panni di Béatrice.
All’Opera Carlo Felice fino al 6 novembre, per la regia di Damiano Michieletto e
la direzione dell’orchestra di Donato Renzetti. ELISA PRATO