In scena al Teatro Carlo Felice dal 28 gennaio “La serva padrona“, rappresentazione alla quale si fanno risalire le origini dell’opera buffa, un genere che si sviluppa nella seconda metà del Settecento e che arriva alla perfezione con Rossini.
L’autore, Giovanni Battista Pergolesi ( nato a Jesi nel 1710, di salute cagionevole e mancato nel 1736) la inserì, secondo l’uso del tempo, in due intermezzi fra i tre atti della sua opera seria, “Il cavaliere superbo”, rappresentata al Teatro San Bartolomeo di Napoli nel 1733.
L’opera ebbe da subito un’accoglienza trionfale nei teatri italiani ed europei, arrivando persino a Baltimora, allora colonia inglese. Nel 1752 l’esecuzione parigina entusiasmò gli intellettuali che lavoravano all’Encyclopedie, suscitando la celebre “querelle des bouffons”, tra i sostenitori della musica francese e quella italiana: per quest’ultima parteggiò con decisione Jean-Jacques Rousseau.
I personaggi sono solamente tre, Uberto, Serpina, Vespone, sufficienti per sbozzare un affresco psicologico che pare immutato nel tempo. Uno scapolo apparentemente irriducibile, ma con un inappagato desiderio affettivo, una cameriera ben decisa ad acchiapparlo facendo leva sulla gioventù e sull’imprevedibilità ed alternanza dei comportamenti, ora impositori, ora fintamente umili, un servo che si presta a sostenerla. Una tattica, quella di Serpina, spesso tuttora vincente ma ben lontana dalla paziente costruzione di un rapporto equilibrato.
L’amore sincero e lineare non sempre paga, perché l’uomo, non necessariamente giovane e inesperto, appare sensibile all’artificio, alla manipolazione da parte femminile: talvolta sembra quasi cercarli, per farsi catturare e guidare. La donna scaltra è provvista di implacabile tenacia, usa e dosa l’approvazione e l’elogio, che sono scambiati per amorevole e costante attenzione. Lei in realtà vuole l’ uomo per vanità, per essere sposata ed ottenere elevazione sociale: lusinga, preme, ricatta, inscena commedie, alla fine riesce ad ottenere ciò che vuole, proprio perché non ama.
Va dritta verso il suo obiettivo, si presenta in una posizione di guida e di comando; lui subisce come ipnotizzato, lei alla fine gli appare come una donna che ha dei diritti che vanno soddisfatti.
Il fatto che il Teatro Carlo Felice rappresenti “La serva padrona” seguito da “Trouble in Tahiti”, ambientato negli anni Cinquanta, può rendere perflessi: in realtà l’accoppiata si legge come una proposta di mostrare l’evoluzione della comunicazione nella coppia, che nella prima opera buffa è praticamente nulla.
“Trouble” è la storia di due coniugi che vivono in un contesto americaneggiante apparentemente perfetto, accentuato dall’animazione artistica anche musicale che si muove intorno a loro. Dovrebbero essere felici ma non lo sono e lei, la più infelice, cerca il dialogo verso un lui che sembra non capire.
Un amore, anche nato con le migliori intenzioni, può annegare nel risentimento e nell’indifferenza se privato dell’educazione all’amore, perché è mancata la creazione di una complicità di coppia e il suo corretto svilupparsi e rafforzarsi nel tempo.
E’ prevalso il nemico numero uno dell’amore, il non detto, il lasciar perdurare abitudini sbagliate, non aver il coraggio di chiedere l’aiuto dell’altro quando non si è felici ed esaminarne con calma le ragioni.
E ancora la mancanza di stimoli e di attenzioni verso il partner, il credere che, una volta in coppia, il sentimento più attraente, misterioso e fragile del mondo sia cosa scontata. Qual è la strada giusta? Certamente quella di tenere vivo il dialogo, certo non quella di lasciar intuire, ma ancora oggi, dai tempi della mela e del serpente, restano da scoprire le corrette modalità di procedere.
Il duetto resta al Carlo Felice fino a domenica 6 febbraio. Elisa Prato