La produzione di compositori italiani, Mascagni, Leoncavallo e, in parte, Puccini, adatta al melodramma elementi del verismo, nato come corrente letteraria fra il 1875 e il 1895 e sviluppatosi a Milano, che si propone di rappresentare reali situazioni umane e sociali, soprattutto delle classi considerate più umili, considerandone gli aspetti anche meno gradevoli e concreti del quotidiano.
Si esplorano soprattutto realtà sociali dell’Italia centrale, meridionale e insulare.
Tra i veristi letterati sono noti Luigi Capuana e Giovanni Verga. Il messaggio trasmesso nella musica e mutuato dalla letteratura, è la difficoltà ad uscire da mentalità ed usanze pesantemente impresse nei tratti psicologici e caratteriali, nonché a riscattarsi da comportamenti imposti dall’ambiente.
Il tratto verista ripreso dalle opere musicali è una sorta di ineluttabile scivolo verso la tragedia, un meccanismo che induce all’errore e all’eccesso, di cui si ha una latente consapevolezza, ma che non si riesce a fermare.
Cavalleria Rusticana, lo stesso Mascagni (Livorno 1863, Roma 1945) così ne commenta la nascita, ai fini della partecipazione al concorso Sonzogno:”…benchè avessi già pronta un’opera, il Ratcliff, pensai di concorrere con un lavoro nuovo, visto che il concorso esigeva un’opera in un atto. E decisi subito per il dramma di Verga.”
La Cavalleria rusticana di Giovanni Verga, rappresentata al Teatro Carignano di Torino nel 1884, con Eleonora Duse nel ruolo di Santuzza, aveva dato inizio al teatro verista.
L’opera di Mascagni, data per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 17 maggio 1890, fu l’inizio del verismo musicale e divenne un successo mondiale, nonostante una causa intentata da Verga per l’introduzione di alcune modifiche, che costò un cospicuo risarcimento all’editore.
Una trama semplice e di impatto, ambientata alla fine dell’Ottocento in un paese siciliano che si appresta a festeggiare la Pasqua.
Il carrettiere Alfio ha sposato Lola, mentre il fidanzato Turiddu era soldato: quest’ultimo si è apparentemente consolato con Santuzza, ma ha ripreso i rapporti con Lola. Umiliata ed offesa dal disprezzo di Turiddu e dall’ironia di Lola, Santuzza rivela la tresca ad Alfio, rendendo inevitabile, per i costumi e la mentalità dell’epoca, il duello tra i due, che si concluderà con la morte di Turiddu.
Nessuno, in questo dramma, pare comportarsi secondo giustizia ed equilibrio.
Ma il Turiddu di Mascagni, pur restando un sanguigno “uomo d’onore”, risulta più consapevole e responsabile nei sentimenti, rispettoso, quando sente avvicinarsi la fine, sia del dolore della madre che di Santuzza, la fidanzata umiliata.
Lola appare come una figura femminile superficiale; non lo è certo Santuzza, temperamento dolente e autopunitivo (ma, dal punto di vista morale, nessuno l’accusa), anche se, alla fine, nel disperato tentativo di salvare il rapporto, cede alla bassezza della spiata.
Secondo il commento del temibile critico dell’epoca Eduard Hanslick, “la musica scaturisce dalla situazione, è omogenea, un tutto unico, non ha momenti di stasi; Mascagni, pur essendo profondamente italiano è anche modernamente europeo.” Un talento caleidoscopico quello dell’autore, testa calda e indisciplinata fin dalla prima gioventù.
L’allestimento proposto dal Carlo Felice si apre su uno scenario notturno che invita alla contemplazione, la piazza davanti alla chiesa pronta per la messa di Pasqua; poco dopo assistiamo alle splendide scene di devozione del popolo, suggestive ma già inquietanti per la presenza costante di maschere, che improvvisamente si animano dando vita ad un balletto dal sapore tribale, presagio dell’incombente tragedia. Lo svolgimento va verso un crescendo potente di musica e di testi,con stretti collegamenti tra le azioni, portata alla massima drammaticità nella conclusione del colloquio tra Santuzza e Turiddu.
La musica è costantemente padrona della scena: il coro «gli aranci olezzano», la preghiera « il Signor non è morto», «Il cavallo scalpita» di Alfio, lo stornello di Lola «Fior di giaggiolo» che spezza come un intermezzo beffardo il momento drammatico del confronto Santuzza- Turiddu. Non meno efficaci gli intermezzi verbali:l’urlo finale che annuncia la morte di Turiddu arriva in platea come uno schizzo di sangue, ineluttabile conseguenza della maledizione lanciata da Santuzza, “ A te la mala Pasqua, spergiuro”.
Ruggero Leoncavallo (Napoli 1857, Montecatini 1919) avrebbe dovuto avere il diritto di portare al successo melodrammi “de bohème”, visto che tale vita a Parigi l’aveva fatta veramente suonando il pianoforte nei café-chantants. Ma viene ricordato solo per “ Pagliacci”.
L’opera andò in scena nel 1892 al Teatro Dal Verme di Milano, sotto la direzione di Arturo Toscanini. Anche il libretto era stato scritto dall’autore, secondo l’abitudine verista, ispirato da un vero fatto di cronaca nera, in quanto il pagliaccio di una compagnia di girovaghi, che alla fine dello spettacolo aveva accoltellato moglie e rivale, fu condannato a vent’anni dal padre magistrato dello stesso Leoncavallo.
Lo spettacolo ebbe critiche severe, tra cui quella del potente Hanslik, che parlò di mancanza di gusto, mentre il francese Bellaigue scrisse che l’opera gli aveva fatto orrore, per non parlare di Puccini che definì l’autore un porco che viene chiamato maestro a vergogna dell’Italia.
Ma il pubblico gli attribuì un successo clamoroso e i grandi cantanti del tempo, da Caruso a Tamagno, ne fecero un cavallo di battaglia.
Il pagliaccio Canio di una compagnia di attori girovaghi ha sposato Nedda, fanciulla da lui raccolta in miseria dalla strada: questa viene corteggiata da Tonio, un pagliaccio gobbo, che lei schernisce e respinge. Per vendicarsi Tonio rivela a Canio che Nedda lo tradisce. Canio deve andare in scena vestendo la giubba da pagliaccio e soprassedere, ma con l’andar dello spettacolo il furore lo investe e lo domina, per cui i sentimenti reali si mescolano e sostituiscono la finzione scenica in un agghiacciante crescendo.
Nedda rifiuta di rivelare il nome dell’amante, che è tra il pubblico: Canio la pugnala e lo stesso fa con Silvio che nel frattempo è accorso.
Ora la commedia è davvero finita, il pagliaccio è diventato “un uomo”, non più costretto a ridere dei propri dolori.
L’opera viene considerata il manifesto del verismo musicale: passione e sentimento sono espressi da un canto esagitato, urlato. Anzi l’urlo, già inaugurato da Cavalleria Rusticana , entra prepotentemente nella lirica. Effetti drammatici ed emotivi rutilano incontrollabili in sfrenata successione. Amoralità e piccineria di una umanità non evoluta, in preda a rancori, sono spalmate a piene mani , rappresentate anche attraverso una gestualità caricata.
Nella versione del Carlo Felice colpisce la musica stridente che accompagna l’azione nonché i panneggi costantemente improntati al rosso. La luna assiste impotente al tragico epilogo, mentre, a commedia finita, un fanciullo, l’innocenza, si ferma a guardare i corpi e sembra non capire.
Una menzione meritano le doti d’attori spiccate del cast.Un plauso alle interpreti femminili di ambedue le opere. L’entusiasmo del pubblico ha premiato anche il baritono Alvarez, mentre Diego Torre (Turiddu e Canio) ha brillantemente sostenuto due ruoli impegnativi. Efficace l’orchestra diretta dal Maestro Arrivabeni,belle le scene di Federica Parolini, splendidi i costumi di Agnese Rabatti.
Il dittico resta al Carlo Felice fino al 30 maggio.
Elisa Prato