È passato un anno dall’annuncio che ha cambiato le nostre vite, quello che ha bloccato la vita del Paese per salvaguardare la salute dei cittadini e provare ad arginare una pandemia
Due giorni dopo l’OMS l’avrebbe certificata come tale, che ancora non siamo riusciti a cacciare via dal nostro presente.
Per quanto la situazione continui ad essere gravissima, con la penisola che è tornata a colorarsi di rosso e restrizioni che si annunciano via via crescenti, la situazione oggi è molto diversa da quella di un anno fa: finalmente ci sono i vaccini, che rappresentano una robusta iniezione di fiducia per superare una emergenza che sembra non aver fine. Proprio in questo anniversario il WWF ha deciso di richiamare l’attenzione tra il legame che esiste tra la salute della natura e quello del genere umano, evidenziando come un rapporto “malato” con l’ambiente che ci circonda e con le specie che lo popolano, siano, spesso, alla base di epidemie e pandemie.
Con oltre 2,5 milioni di morti nel mondo (di cui circa 100 mila in Italia), il COVID-19 è diventata una tra le epidemie più letali della storia: ma non è la prima e, purtroppo, rischia di non esser l’ultima. In meno di 20 anni, si sono verificate altre tre gravi epidemie che hanno toccato la popolazione umana: nel 2003 è comparsa la SARS, nel 2009 si è diffusa una epidemia di influenza aviaria H1N1 e nel 2012 è comparsa la MERS. E ancora, Ebola, Zika, HIV/AIDS, febbre del Nilo occidentale sono altre gravissime epidemie degli ultimi decenni. Sebbene siano emerse in diverse parti del mondo, tutte queste malattie epidemiche hanno una caratteristica in comune: sono quelle che gli scienziati chiamano “zoonosi”, malattie presenti negli animali che hanno fatto il cosiddetto “salto di specie” (o “spillover”) verso l’uomo.
Oggi, le zoonosi rappresentano il 60% delle malattie infettive conosciute e il 75% delle malattie infettive emergenti. Il numero di zoonosi trasmesse da animale a uomo è quasi triplicato negli ultimi 40 anni, complice l’azione dell’essere umano sull’ambiente. La pandemia provocata dal COVID-19 ha permesso di capire quanto i sistemi naturali siano indispensabili per proteggere la nostra salute e per ridurre la diffusione di pericolose malattie. L’equazione è semplice: più distruggiamo la natura, più rischiamo di scatenare malattie infettive ricorrenti ed emergenti. Gli ecosistemi sani, grazie ai complessi meccanismi che mantengono l’equilibrio tra le varie specie e con l’ambiente, hanno infatti un ruolo importantissimo nel regolare la trasmissione di malattie, siano esse batteriche, virali o trasmesse da altri agenti patogeni, . Quando l’uomo interviene su questi equilibri, alterandoli, aumenta il rischio di trasmissione di malattie che possono facilmente trasformarsi in epidemie o pandemie. Quando abbattiamo foreste, prosciughiamo habitat di acqua dolce, cancelliamo ecosistemi naturali, spingiamo gli animali in aree sempre più frammentate, li cacciamo, traffichiamo, sottoponiamo a stress, alteriamo gli equilibri naturali favorendo il salto di specie dei virus e la trasmissione di altri patogeni.
Il fronte della minaccia
Gli esperti che hanno redatto il recente rapporto IPBES stimano che ci siano circa 1,7 milioni di virus che circolano fra mammiferi e uccelli, e di questi circa la metà potrebbe avere la capacità di trasferirsi all’uomo. Secondo l’OMS, nonostante siano ormai descritte oltre 200 patologie di origine animale (alcune delle quali note da secoli), le zoonosi rappresentano oggi più che mai una minaccia significativa per la salute pubblica.
Le zoonosi emergenti sono quelle che più preoccupano l’umanità perché compaiono ad un ritmo che non ha precedenti nella nostra storia umana e perché hanno un impatto importante sulla salute umana, sui sistemi sociali e quelli economici. Un recente articolo rileva come, dal 1940 ad oggi, i cambiamenti nelle pratiche agricole siano associabili ad un aumento del 25% di tutte le malattie infettive e un aumento del 50% di quelle zoonotiche, percentuali che probabilmente aumenteranno con l’ulteriore espansione e intensificazione dell’agricoltura e dell’allevamento.
Quanto costa non prevenire le pandemie?
Sempre secondo l’IPBES (vedi sopra) si stima che i costi di prevenzione delle pandemie siano 100 volte inferiori al costo di risposta alle epidemie. Rispondere alle malattie o peggio, alle epidemie, dopo la loro comparsa, ricorrendo a misure di salute pubblica, soluzioni tecnologiche e in particolare alla ricerca, preparazione e alla distribuzione di nuovi vaccini e terapie, è molto dispendioso e lento; comporta inoltre una diffusa sofferenza umana, oltre a decine di miliardi dollari l’anno di danni all’economia globale. Ingenti sono anche i costi indiretti connessi con la riduzione delle attività aziendali e con altri impatti ambientali associati ad un evento epidemico. Vanno tenuti anche in considerazione gli alti costi di altre possibili misure da adottare all’insorgenza di un focolaio, come l’abbattimento di animali da allevamento e selvatici.
Il rischio di pandemie future può essere notevolmente contenuto, riducendo drasticamente gli effetti della lunga lista di fattori e attività umane che causano la perdita di biodiversità, aumentando il livello di conservazione della natura e diminuendo lo sfruttamento insostenibile delle regioni del Pianeta ad alta biodiversità e ricordandoci, come sintetizzato da Papa Francesco, che “non possiamo illuderci di rimanere sani in un Pianeta malato”.
Ecco alcune soluzioni per contenere il rischio, alcune delle quali rilanciate con la campagna ReNature promossa dal WWF, che prevede azioni concrete per rigenerare la natura entro i prossimi 10 anni
Proteggere gli ultimi ecosistemi naturali, in particolare quelli a maggiore biodiversità
Ridurre i meccanismi che contribuiscono alla loro distruzione, tra cui agricoltura e allevamenti intensivi.
Modificare le nostre abitudini di consumo, scegliendo prodotti a minore impatto sulla biodiversità.
Ricostruire le connessioni e gli equilibri ecologici sul pianeta.
Applicare in maniera efficace e diffusa l’approccio One Planet Health
Per approfondire
La relazione tra ambiente, biodiversità, società umana e malattie zoonotiche è molto complessa, come analizzato nel report del WWF “Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi. Tutelare la salute umana conservando la biodiversità” e nel rapporto UNEP “Preventing the next pandemic”. Mentre gli animali selvatici possono essere un naturale serbatoio di malattie, anche gli animali domestici possono essere dei pericolosi amplificatori di patogeni generatesi in natura. La cosa importante da considerare è tuttavia che la gran parte delle malattie infettive, che originino da animali selvatici o da animali domestici, da piante o da altre persone, sono favorite da attività umane – come l’agricoltura intensiva, l’uso insostenibile o illegale della fauna selvatica, la distruzione e la trasformazione di ecosistemi naturali – producendo effetti spesso imprevedibili. Secondo uno studio pubblicato su Nature (Keesing et al. “Impacts of biodiversity on the emergence and transmission of infectious diseases.”, 2010) quasi il 50% delle malattie zoonotiche emergenti è in qualche modo collegato alla trasformazione di uso del suolo, ovvero alla distruzione degli ecosistemi naturali.