“Lunaria a Levante”. Domani in diretta streaming dal Teatro Emiliani di Genova Nervi, l’alpino classe 1918 Lodovico Portesine racconta “La guerra non mia”, testimonianza diretta della Campagna di Russia.
Lunaria a Levante 2021 domenica 21 marzo 2021 ore 16 diretta streaming dal Teatro Emiliani Genova Nervi. “La guerra non mia” di Paolo Portesine. Le vicende del padre Lodovico Portesine, alpino, classe 1918, presente sulla scena. Con: Paolo Portesine / Lodovico Portesine.
L’alpino della divisione Cuneense Lodovico Portesine, classe 1918 racconta, attraverso le sue parole interpretate dal figlio attore Paolo, le vicissitudini da lui patite in prima persona, inizialmente in Albania, poi nella disastrosa campagna di Russia, che ha per drammatico epilogo la prigionia in Siberia, dove il racconto si ferma.
Una cronaca cruda, disincantata, di fatti realmente accaduti nei più tragici momenti del nostro esercito durante la II Guerra Mondiale, dove gli eroismi sono dettati dalla disperazione, dalla fame e dal desiderio di sopravvivere: la ritirata dal fronte del Don e la storia sventurata dell’Armir, il gesto che gli varrà la medaglia al valore, la disfatta, e infine il viaggio di trenta giorni sui vagoni piombati verso i campi di lavoro, dove arriva a pesare 32 chili.
Lodovico Portesine stesso (i prossimi saranno 103 anni) è presente in scena con il suo cappello d’alpino, testimone vivente di una storia incredibilmente vera in ogni particolare.
Ascolta i ricordi della sua gioventù in divisa, li rivive e li fa rivivere al pubblico con la voce del figlio, accompagnato da un pianoforte e da immagini dell’epoca, in una galleria di volti, di emozioni, di fotografie indelebili di quei tragici eventi: il giovane caporale legato fuori dalla trincea da un superiore per folle punizione, l’amico che decide di andare a morire camminando verso il nulla, lo zoccolo di un mulo rosicchiato per giorni come unico pasto.
E’ una guerra che potrebbe essere qualsiasi guerra, dove non ci sono eroi che marciano cantando, ma c’è freddo, fame, paura, odore di escrementi e sangue. Un potente monito per non dimenticare la follia di ogni conflitto.
info: Lunaria Teatro 0102477045 – 3737894978 info@lunariateatro.it Paolo Portesine email: paoloportesine@libero.it
Dal testo:
“Ho compiuto vent’anni da pochi mesi, tutto quello che possiedo sta in un piccolo zaino che saltella sulle mie spalle mentre cammino a passo lesto, come se fuggissi. E forse lo sto davvero facendo, dalle semine che facciamo ancora a mano, dalla zappatura d’ infiniti filari di viti, dal fieno da falciare e poi voltare e rivoltare finché non è asciutto.
E’ il 29 Marzo 1939…
8 Dicembre 1940, ordine improvviso, si va a sistemare l’Albania.
Abbiamo capito subito perché lo chiamano il paese delle aquile. Un grumo di montagne ripide e senza strade, di tanto in tanto dei pastori magri e ombrosi che ci guardano sfilare impassibili.
A pensarci, forse le aquile sono loro.
Stiamo camminando in fila indiana sul fianco del monte Tomorri, piove di continuo da diversi giorni, una pioggia fine di gocce gelate. Il paesaggio è solo fango, acqua e fango che ti entra ovunque, i muli affondano fino alla pancia nel pantano dei sentieri e non c’è verso di tirarli fuori. Bisogna finirli con un colpo alla testa, io mi volto per non guardarli negli occhi, mi pare che capiscano cosa li aspetta.
Scendete, scendete dal treno, tutti fuori!
Così ci urlano ai confini tra Polonia e Ucraina.
Perché ci fermiamo qui? Dove andiamo? E come?
Bocche cucite, la destinazione è segreto militare.
Niente mezzi meccanici, si marcia verso est, verso il nemico, a conquistare le terre dei comunisti, gente atea e immorale, ci hanno detto.
Noi siamo i nuovi crociati, la loro brutta copia senza la scusa della fede.
Camminiamo a testa bassa, in silenzio, passo dopo passo, col rumore degli scarponi che fa da litania al nostro andare avanti. Percorriamo 1500 chilometri a piedi in trenta giorni, che vuol dire 50 chilometri al giorno, col caldo infernale che la pianura russa si concede d’estate e uno zaino di 40 chili sulle spalle.
Prima ci siamo diretti verso il Caucaso, poi improvvisamente è arrivato un nuovo ordine che ci ha deviati sulle rive del Don, la nostra meta, lo sperato riposo dopo un mese di marcia forzata, se di riposo si può parlare, visto che siamo in prima linea.
Sull’altra sponda i russi, organizzati e invisibili nelle loro divise bianche.
Forse speriamo che, se ridono, i cecchini al di là del fiume sbaglino mira.
Con la raccolta notturna dell’acqua, il turno di guardia è la parte più pericolosa nella routine della trincea. Si fa solo di notte, e anche se parzialmente protetti da un terrapieno e dal buio, siamo come uno spaventapasseri scuro contro il candore della neve.
E’ quasi la fine del mio turno, aspetto il cambio muovendo qualche goffo passo avanti e indietro, per non gelare, poi decido di dare l’ultima occhiata più attenta alle linee russe.
Mi sporgo un po’ di più, allungo il collo e alzo il naso verso il cielo, per far sì che la falda del mio cappello da alpino non mi impedisca la vista. Mentre trattengo il fiato e stringo gli occhi, sento un colpo. Un fischio secco e subito ho freddo alla testa. Il cappello è volato via. Mi butto a terra e lo vedo pochi metri dietro di me, lo raccolgo, ha un foro davanti proprio sopra l’aquila, lo stemma degli alpini, e uno dietro, di uscita, poco più in alto, probabilmente per la posizione del mio capo.
Sono passate tre settimane dalla partenza del treno, non abbiamo più toccato cibo dopo i sottaceti e le gallette del primo giorno, senza dimenticare che eravamo reduci da una tragica ritirata appena conclusa. Ormai sul vagone c’è un silenzio totale, siamo rimasti una ventina di quasi cadaveri accasciati a terra senza forze, un gruppo di naufraghi alla deriva dopo mesi di mare aperto, fagotti di ossa in divisa coperti da piaghe e pidocchi.
L’indomani mattina, senza peli e senza pidocchi mi pesano, sono trentadue chili.
Il mio amico Pietro, un metro e ottantacinque di artiglieria alpina, ne pesa 34.
Se siamo sopravvissuti fino ad ora, ormai ce la faremo, così penso i primi giorni di prigionia.
Invece a completare l’opera arrivano gli stenti del campo e il tifo petecchiale, la febbre letale provocata dalle punture dei pidocchi. La chiamano anche febbre da carestia, è quella che ha ucciso Anna Frank, e per molti di noi finisce il lavoro che la guerra ha iniziato.
A me toglie l’ultimo amico ancora vivo.”