Al Teatro della Corte di Genova e ora di nuovo in Liguria, alla Spezia. Due atti da un’ora e un quarto l’uno e non accorgersi del passare del tempo:
Bisogna rendere innanzitutto questo merito alla rappresentazione de I miserabili, andata in scena dal 5 al 10 febbraio scorsi al Teatro della Corte di Genova e il 28 febbraio e il 1° marzo di nuovo in Liguria, al Teatro Civico di La Spezia.
L’adattamento di Luca Doninelli dal grande classico della letteratura francese (Les Misérables), il romanzo storico di Victor Hugo pubblicato nel 1862, non ha rischiato di far addormentare i molti giovani in sala.
La rappresentazione di un’opera monumentale costituisce di per sé una scommessa rischiosa, ma la fortunata produzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, CTB Centro Teatrale Bresciano e Teatro de Gli Incamminati, che ha debuttato il 25 aprile 2018 a Napoli, proseguirà la propria tournée almeno fino al 2020.
Qualcuno, tra il pubblico dei veterani, ricorda forse quello che era stato definito dai giornali dell’epoca “il più lungo romanzo sceneggiato mai realizzato dalla televisione”, cioè la versione dell’opera di Victor Hugo in 10 puntate, andata in onda nel 1964 sulla RAI, diretta da Sandro Bolchi, con Gastone Moschin, Tino Carraro e Giulia Lazzarini. La generazione successiva, invece, conoscerà il musical Les Misérables, realizzato nel 1980 dal compositore francese Claude-Michel Schönberg e dal librettista Alain Boublil e tuttora rappresentato, mentre i più giovani avranno forse visto il film musicale del 2012, diretto da Tom Hooper, con Hugh Jackman, Russell Crowe e Anne Hathaway.
Una versione teatrale come quella in oggetto, dunque, è quasi una prima volta in prosa e, dato che alcuni la commentano, dicendo anche che “fa venir voglia di leggere il romanzo”, si deduce che al pubblico stia piacendo. La critica specialistica, invece, potrebbe registrare qualche didascalismo di troppo, che personalmente considererei trascurabile, proprio in rapporto agli intenti positivi della pièce.
I brani più significativi dei cinque tomi e delle 1.500 pagine di cui si compone l’opera ci sono tutti e la trama, le vicende individuali e quelle corali, si possono seguire agevolmente.
Nella parte potente di Jean Valjean è calato Franco Branciaroli, che con piglio da vecchio leone dà voce a un personaggio complesso, uscito da pochi giorni dal bagno penale, dopo aver scontato 19 anni di lavori forzati.
Il grande attore protagonista pare ricercare la narrazione e, quasi sommesso nella parlata uniforme e nei modi drammatici nella prima parte dello spettacolo, va piacevolmente sciogliendosi in corso d’opera. La regia di Franco Però guida un manipolo di altri 12 valenti attori: Alessandro Albertin (Vescovo Myriel / Gillesnormand), Silvia Altrui (bravissima a rendere, pur adulta, una Cosette bambina e il monello Gavroche), Filippo Borghi (Marius), Romina Colbasso (una vezzosa e fresca Cosette adulta), Emanuele Fortunati (Courfeyrac / Montparnasse), Ester Galazzi (Fantine / Baptistine), Andrea Germani (Enjolras / Gueleumer), Riccardo Maranzana (Thénardier), Francesco Migliaccio (Javert), Jacopo Morra (Combeferre / Babet), Maria Grazia Plos (Madame Thenardier / Magloire) e Valentina Violo (ottima interprete, vivace e cangiante, di Éponine) risultano affiatati e complici nella loro proteiforme capacità di interpretare ognuno anche più ruoli.
Il romanzo storico copre un arco temporale quasi ventennale, che dalla Restaurazione postnapoleonica del 1815 arriva alla rivolta antimonarchica del 1832.
Su questo scenario, il fil rouge del meccanismo narrativo è dato da un rapporto costante di contrasti, ben sottolineati, come quello tra crimine e redenzione, tra sacro e profano, tra bene e male; tra l’ex criminale Jean Valjean e l’ispettore di polizia Javert, che gli dà costantemente la caccia (il loro antagonismo può ricordare quello de I duellanti di Joseph Conrad e del film omonimo di Ridley Scott), secondo un discutibile ideale di giustizia (“ci sono uomini che credono solo nella giustizia, ma non sono uomini giusti”); tra poveri e borghesi (“i borghesi non sono altro che dei poveri, ma con la pancia piena”); tra buoni e cattivi (la coppia di malvagi locandieri, i Thénardier – che trattano come una serva la piccola Cosette, affidata loro da una ragazza-madre, Fantine –, poi a capo di una banda di criminali parigini); tra reazionari e rivoluzionari (come Marius Pontmercy, che per orgoglio rinuncia alla rendita di famiglia, gestita dal nonno monarchico); tra amore e morte.
Ci si chiede, allora, se una colpa possa segnare una vita intera e se esista una possibilità di riscatto. La figura di Monseigneur Myriel, il vescovo di Digne al quale Jean Valjean ruba l’argenteria all’inizio della storia, illumina il suo cammino di redenzione e la sua trasformazione in uomo buono, benefattore, imprenditore di successo, persona riconosciuta dalla comunità per la propria virtù.
Se “essere buoni è facile, difficile è essere giusti”, ancor più arduo risulta sfuggire all’altro lato della medaglia, a un giudizio distorto che non lascia scampo. L’“infame galeotto” rimane tale agli occhi di chi vede la vita in maniera univoca e non stratificata come “una scena che ha solo poche quinte”.
D’altra parte, la Rivoluzione necessaria sta proprio in quel suo senso di riscatto di passato e futuro.
Luca Doninelli scrive che “I miserabili… rappresentano l’umano nella sua nudità: spogliato non solo dei suoi beni terreni, ma anche dei suoi valori, da quelli etici fino alla pura e semplice dignità che ci è data dall’essere uomini”.
È interessante chiedere a uno degli attori, Emanuele Fortunati, chi sia più miserabile tra i personaggi ai quali anche lui dà volto e voce. “Lo sono tutti”, risponde, “rivoluzionari falliti, che vivono nelle fogne di Parigi, dove i cattivi sono tragicamente quelli che dovrebbero incarnare la giustizia”. Emanuele interpreta – ci tiene a precisare, “con la stessa spinta e la stessa onestà” – il secondo sacerdote, che rappresenta la coscienza e il dramma di Jean Valjean, desideroso di evitare la condanna a un uomo innocente; il medico al capezzale di Fantine malata; il rivoluzionario, che all’amico Marius, innamorato di Cosette, declama un breve monologo aggiunto – a firma dello scrittore – sullo sguardo delle donne (“un concerto di forze misteriose”); e, infine, il malavitoso Montparnasse.
Tra i punti di forza di questa versione teatrale de I miserabili, oltre a una riscoperta attualità dei temi – i nuovi emarginati, i nuovi poveri – propria dei classici, ci sono sicuramente: la sobrietà delle scene di Domenico Franchi, costituite da pochi elementi, paratie e pannelli scorrevoli, e da una dominante neutra di colore grigio, che non distrae ma astrae dalla storia, permettendo di immaginare il contesto descritto; la capacità (miracolosa) di rendere viva una Rivoluzione e credibile una folla scesa in piazza, movimentando soltanto una decina di persone sul palcoscenico; l’aver posto al centro di tutto una narrazione per antonomasia, epica e tragica, e aver saputo trasmettere il pensiero etico di Victor Hugo, che sopravvive, nonostante una legge non infallibile, anche nelle ultime parole del (miserabile) Jean Valjean: “Amatevi sempre, al mondo non c’è che questo”. (foto: Linda Kaiser e Simone Di Luca).
Linda Kaiser