Diritto all’aborto, ma anche diritto a non abortire. Nessuno fiata. Noi invece pubblichiamo la storia di una mamma di 13 anni che scegliendo di non abortire e di volere stare accanto al suo bimbo, come ogni madre normale dovrebbe fare, ha dimostrato di essere molto più matura e umana rispetto a tante giovani donne.
In questa vicenda sono intervenuti i Servizi sociali e il neonato è stato letteralmente strappato al seno materno. La mamma non ha neanche potuto esercitare il diritto di allattarlo.
Alla tredicenne è stata quindi negata la possibilità di stare, con il suo bimbo, nella casa famiglia che l’ha aiutata. Il neonato è poi finito al padre ventenne, che in Tribunale dovrà rispondere del reato di violenza sessuale su minore (essendo la parte offesa minore di 14 anni).
Il caso, verificato dal giornalista genovese Diego Pistacchi, è stato riportato in un articolo pubblicato oggi sul Giornale del Piemonte e della Liguria. Ecco il testo integrale.
“Giù le mani dal diritto all’aborto, da una parte. Applicare tutta la 194 anche quando tutela il diritto a non abortire, dall’altra. Poi accade che una bambina vuole portare a termine la gravidanza e nel momento in cui nasce il bimbo le viene tolto il diritto di essere madre. E nessuno fiata. Perché nessuno sa nulla e perché a termini di legge sembra che non ci sia nulla di che obiettare.
Se la storia è umanamente agghiacciante, dal punto di vista dei diritti è addirittura aberrante. Val la pena essere raccontata, anzi urlata, garantendo il massimo anonimato ai protagonisti. Sia sufficiente sapere che si è speso, purtroppo finora invano, un noto professionista genovese che, al pari dei dirigenti di una comunità di accoglienza nel milanese, è pronto a fornire ogni dettaglio nelle sedi opportune e protette.
Nasce tutto da un rapporto ‘consenziente’ – un ossimoro parlando di una bambina di 13 anni – con un maggiorenne. Si parte, insomma, con un reato del quale Matteo, il padre del bambino, dovrà comunque rispondere.
Lucia, nome ovviamente di fantasia come l’altro, è seguita da una comunità per mamme con bambini, una casa protetta di quelle di cui tanto si è parlato in questi giorni dedicati al contrasto alla violenza sulle donne. E’ la sua vera casa e lo sa, anche perché la madre non è in grado di fare la madre. Oltre ad avere gravi responsabilità nello stesso rapporti della bambina, è a sua volta coinvolta direttamente.
Lucia in comunità si integra subito benissimo, con i professionisti che la seguono instaura un rapporto perfetto. Affronta il tema dell’interruzione di gravidanza, è una delle opzioni sul tavolo, ovviamente. Fa una scelta forte, coraggiosa, dimostra di essere la persona più consapevole e matura dell’intera vicenda.
Tutto fila liscio fino al momento di andare in ospedale per le visite pre parto, dove viene accompagnata e seguita sempre dalla sua nuova famiglia, dalla comunità che Lucia ha scelto come casa per il suo bimbo.
La sua unica preoccupazione è addirittura quella che qualcuno possa insistere per farla abortire.
Come è normale che sia, vengono avvertiti anche i Servizi sociali, che dovrebbero essere solo un ulteriore supporto per la bambina-madre. Il personale dell’Asl però non entra in contatto con i colleghi della comunità, anzi. Al momento del parto, chi fino a quel momento è sempre stato al fianco di Lucia, chi rappresenta la tanto declamata risposta alla violenza sulle donne, viene cacciato via.
Non solo. Appena nato, il bimbo viene letteralmente strappato al seno materno, come se fosse un bambino da dare in adozione, non riconosciuto dalla madre.
Il neonato non viene portato per l’allattamento alla mamma che perde anche la montata lattea.
Una violenza inaudita, forse una delle peggiori, nei confronti di chi ha appena partorito un figlio e non ha altro desiderio che stringerlo al petto e dargli il sostegno con tutta se stessa.
In questo caso, di diritti della donna e ancor più di una madre, sembra non fregare niente a chi di mestiere dovrebbe avere prima di tutto a cuore la cura psicologica e sociale di una vittima. Di una vittima per di più coraggiosissima.
Perché tutto ciò? Perché Lucia non ha 16 anni, età limite secondo la legge per aver diritto a decidere del proprio figlio. Limite derogabile in casi eccezionali (e questo lo sarebbe) fino a 14 anni. Ma Lucia non li ha compiuti. E poi perché il padre del bambino, quello che andrà sotto processo per violenza ai danni della bambina, ha deciso di riconoscere il figlio.
Per i Servizi sociali non serve altro. C’è un padre, mentre la madre ‘non è’ madre, non ha diritto a esserlo. Poteva scegliere di non abortire (bontà loro) ma una volta partorito perde ogni diritto sul figlio. Per questo i Servizi sociali prendono contatti con il padre, che vive in un’altra città, e in questa città scelgono un’altra comunità dove trasferire il bambino.
Lucia protesta, lei vuole restare nella comunità che l’ha aiutata, difesa, cresciuta, assistita, rispettata. Vuole la sua ‘famiglia’ per sé e per il suo bimbo. No. ‘Tu puoi anche non venire, il bambino viene con noi’, dicono i Servizi sociali alla bambina, alla bambina-madre.
Un aut aut, un ricatto, cui Lucia deve sottostare per non perdere suo figlio. Si trasferisce nella comunità comoda per il padre che per la stessa legge è il violentatore.
Tutto a rigor di legge, pare. Lucia è stata punita per aver avuto coraggio e amore. Più coraggio e amore di chi l’ha messa incinta. Più coraggio e umanità di chi, ammesso che la legge non preveda una soluzione alternativa, non ha saputo sfidarla in nome di un diritto superiore a qualunque legge. Diritto di qua, diritto di là. Nessuno fiata sulla storia di Lucia?”.