Anton Cechov (nasce a Taganrog, Ucraina, nel 1860, muore nel 1904), medico, scrittore, drammaturgo, spesso incompreso, almeno nelle prime rappresentazioni sceniche, propose un teatro rivolto a privilegiare l’espressione di stati d’animo, emozioni, contraddizioni, con una spiccata aspirazione alla realizzazione di una vita qualitativa, comune ad ogni essere umano, anche se spesso sopita o non tenacemente perseguita.
E l’attenzione ai meandri dell’animo umano fu l’innovazione del suo teatro.
L’agire dei protagonisti verso questo traguardo è però ristretto, accennato, vanamente perseguito.
Uomini e donne si muovono come pervasi da un’angoscia sottile, quella di non aver avuto abbastanza determinazione per arrivare al tipo di vita che volevano davvero raggiungere, anche se la facciata e la posizione sociale potrebbe mostrare il contrario.
Cechov pare in qualche modo raccontare se stesso. Ragazzo dalla vita resa difficile dalle ristrettezze economiche e da una insensata severità paterna, seppe affrancarsi dalla famiglia, ma non dalle proprie inquietudini.
Raggiunse una certa agiatezza, ma stentò ad accettare una vita sentimentale ufficializzata con la donna che pur amava e uno stabile domicilio.
Ne “Il gabbiano”, opera rappresentata per la prima volta nel 1896 con un clamoroso insuccesso (a seguito del quale l’autore diede segni di follia), si racconta la tragedia di una umanità delusa da una vita ritenuta inutile.
Egli sembra aver iniettato nei personaggi, uomini e donne, sia pur di età e di temperamento diversi, tutte le proprie altalenanti aspirazioni e, al tempo stesso, l’incapacità di essere condottieri della propria vita.
L’inconsistenza dell’uomo può uccidere con leggerezza splendidi ed innocenti animali e, con la stessa leggerezza ed insipienza, può tranciare la qualità della vita propria ed altrui.
Nel giovane e bel volatile, stroncato mentre vola, elegante e spensierato, dal capriccio umano, si riconosce Nina, rea confessa del fallimento della propria esistenza. La donna. anche se amata da Konstantin, certo provvisto di lealtà e qualità morali, forse anche di talento, non vuole o non sa ricambiare questo sentimento che potrebbe riscattarla, anche di fronte a se stessa.
In realtà, in questo dramma, tutti sono o sono stati “gabbiani”: tutti aspiravano a volare, forti della consapevolezza dei propri talenti umani e del proprio capitale affettivo, ma non lo hanno saputo fare, non hanno attivato abbastanza l’autostima e la capacità di valutazione che serve per dirottare le sirene bugiarde che hanno sviato la loro vita.
Ora, malcontenti e lamentosi, si lasciano vivere tra le ineluttabili banalità della vita.
Il tavolo della noiosa tombola campagnola ne è un affresco splendido e rivelatore, tra discorsi volgari e risaputi; un gabbiano assiste, rigido, impagliato.
Ecco dunque in scena l’instabilità emotiva delle donne dal pianto e il riso simultanei, ecco i consigli tarpanti sul quieto vivere agli uomini attempati, ecco l’angoscia di essere adulati in vita e minimizzati e dimenticati da morti, ecco l’insicurezza della lunga dipendenza affettiva da uomini altalenanti ed indecisi.
Vite trascinate, vite doppiate, proprie dei deboli che non sanno scegliere: così li giudica con corretta e lucida visione il giovane Konstantin.
Giudizio esatto e spietato, giudizio che però non protegge e non evolve verso la maturità la sua giovane mente: alla fine è proprio lui quello che rinuncia alla vita.
Uno spettacolo da non perdere, con un secondo atto straordinariamente efficace, così come l’interpretazione avvincente e l’idea, sempre d’impatto, di estendere l’azione alla platea.
“Il gabbiano” resta alla Corte fino a domenica 3 marzo.
Elisa Prato