Nella società dell’apparire, è logico che si riduca al minimo ogni traccia di spontaneità e di sentimento confidenziale. Ed è logico che la fase civica del dialogo non preveda la partecipazione della sincerità.
L’usuale esercizio del dialogo porta con sé, accanto all’idea di smarcarsene in tutta fretta, la dotazione e l’uso di un prontuario di frasi fatte.
Dinanzi alla premessa, eccoci tutti mediamente dis-interessati ad ascoltare gli altri: piuttosto, finalizzati all’idea di convincere gli astanti, nel breve tempo a disposizione, dell’ eccelsa qualità della nostra personale esistenza.
Sempre in ascolto di noi stessi, ogni liturgica parola ha questo precipuo compito: narrare agli altri la versione olimpica di sé e camuffare ogni realtà ombrosa.
Mai rivelare una debolezza, uno stato d’animo, un accadimento che possa suscitare solidale commiserazione: l’altrui com-patimento rende poco credibile e poco invidiabile ogni fastosa narrazione.
Cosicché, rispolverando dal repertorio la frase adatta per convincere l’interlocutore del proprio successo, la comunicazione resta sostanzialmente impersonale e inconcludente.
In questo avanzare mascherato stile Cartesio, la libido del camuffamento, la volontà di occultare il mal-essere personale vigoreggia in proporzione diretta a dissimulazione e inautenticità.
Catapultati in un dialogo retroscenico, è dunque indispensabile ricorrere a logomachie, ad una oralità stereotipata, per ostentare la parvenza del tutto bene.
D’altro canto, è questo il mondo del finto ben-essere, il modo di una società psichicamente afflitta, in cui il mezzo mediatico la fa da padrone, pubblicizzando e commercializzando, accanto all’offerta a pagamento di sostegni psicologici, ansiogene profilassi sanitarie.
E’ il mondo in cui il marketing, mercificato tutto e tutti, promuove una incessante serie di parvenze: dalla felicità familiare stile mulino bianco all’esorbitante personalità di chi acquista un suv, dalla convincente seduzione del caffè espresso, fino al tono emozionale che, commuovendo la platea, aspira a lasciti testamentari.
E’ quindi logico che questo individuo-merce, nella fase sociale aggregativa, nasconda le proprie magagne e, nel contempo, esponga i presunti pregi.
In sostanza, trattasi di una realtà identificata dal “bene, ma non benissimo” di una canzone di qualche anno fa. Massimiliano Barbin Bertorelli