Ogni singola iniziativa umana è preventivamente sottoposta al pensiero calcolante.
Tuttavia, anche quando l’iniziativa è avviata, questo pensiero non cessa di insistere e di trascinare l’individuo nelle ipotesi futuribili più funeste, più timorose, combinandole in una intricatissima costellazione di imprevisti.
La fatica mentale implicata in questa inesorabile iper-funzione non può essere evitata, se non per il breve tempo in cui si attinge felicità dai distraenti bisogni consumistici.
Il preambolo tenta di sunteggiare e incorniciare la qualità dell’esistenza dell’ animale-incessantemente-pensante (l’uomo) rispetto all’ animale-non-pensante, nella misura in cui la quotidiana estenuazione della mente umana esplora e subisce la percezione del pericolo anche quando è sostanzialmente assente o ne è mal-impegnato l’allarmismo.
A provocatorio esempio, l’odierna circostanza che vede il cinghiale avventurarsi fino nei centri abitati, malgrado tutto incurante di ciò che potenzialmente gli è ostile, stigmatizza la naturale potenza animale del fregarsene anche quando occupa un territorio pericoloso ed estraneo.
Il cinghiale si limita ad attenzionare i movimenti intorno allo spazio occupato, a massimizzare la ricerca di cibo e a considerare, quando è il momento, il ritorno al bosco in sicurezza.
In ciò salta all’occhio la poderosa differenza tra umano e animale, sulla falsariga di quella “tra bufalo e locomotiva”, per riprendere un brano di F. De Gregori.
Salvo eccezioni, la mente umana produce a ritmo continuo pensieri di calcolo e di controllo. Mai s’impone di estinguerne o ridurne l’emissione. Sempre si pre-occupa delle cose prima del loro eventuale accadimento. Sempre pre-giudica l’ azione con ipotesi contaminate di manie, abitudini, ansie, paure e fumosi convincimenti. In sostanza, non aspetta che la moneta cada a terra per dire se è testa o croce.
Tirando le somme, sebbene messa a dura prova dal poco cibo, dai cacciatori e dalle azzardate sortite in territorio ostile, l’esistenza del cinghiale, e dell’animale in genere, non subisce la paura che invece sottomette l’esistenza dell’individuo incivilito polifobico.
Se l’individuo dichiara in ogni suo comportamento questa sottomissione, l’animale manifesta un dominio adattivo sul contesto, anche in presenza del principale pericolo costituito dall’essere umano.
Per concludere, vale sintetizzare con la considerazione di F. Nietzsche: “gli animali vedono nell’uomo solo un essere infelice che ha perduto l’intelletto originario”. Massimiliano Barbin Bertorelli