Non è mai male porsi e riproporsi domande. Anche quelle già affrontate, anche quelle cui riteniamo di aver già dato adeguata risposta.
E’ prudente infatti assicurarci di una continuativa condizione di bontà argomentativa che contrasti le comode convinzioni, che innovi l’esperienza, che implichi e talvolta sovverta i termini e gli stessi presupposti su cui aleggiano confusamente certezze e dubbi.
Per esempio, sempre e comunque vale la pena di chiedersi se è il caso di continuare ad impegnare quota parte delle nostre energie nel dissimulare comportamenti, nell’approntare piani e strategie finalizzati ad ottenere l’assenso incondizionato degli “altri”.
Tra tutti gli ambigui possibili traguardi, proprio nella risposta a questo quesito insiste, pervicacemente, una ipotesi di deragliamento tra i rottami di ideali aleatori e gli scampoli di una nefasta tradizione.
Vale, in primis, l’idea di verificare l’effettiva esistenza in ciò di una invalidante insidia e, in secundis, di comprendere se tale fenomeno possa direttamente riguardarci, senza pensare che ci sia estraneo.
Impresa ardua, logorante ed inutile, apparire quotidianamente ciò che i paradigmi della consuetudine pretendono e prevedono. Inesorabilmente collocati in un coacervo di convenzioni e di esigenze sussumibili da un rapporto edulcorato col mondo circostante.
Fuor di paradosso, “l’adesione piena ai valori collettivi è la dichiarazione di fallimento dell’identità”, riprendendo con cautela una citazione di Jung.
Viene quindi da chiedersi, rimandando a possibili ulteriori sacrosante riflessioni: chi mai, tra gli esseri viventi, disponendo di istinto e di spazio, vorrebbe relegarsi in un luogo angusto?
Perché mai l’uomo, essere presuntivamente e nominalmente intelligente, tende, in cambio di poco o nulla, a compromettere e svilire l’essenza stessa del proprio privilegio identitario?
Massimiliano Barbin Bertorelli