In evenienze calamitose, in impreviste situazione di comune pericolo, le persone tendono ad unirsi, a confortarsi reciprocamente, a stringere con più facilità, o riprendere, legami solidali. Tendono a recuperare quella dimensione sociale-affettiva trascurata o sconsigliata in condizioni ordinarie.
E’ infatti usuale che, per indomita prassi e inconfessata irrequietezza, gli individui si distanzino tra loro, ponendo tra le loro stentate relazioni erti e invalicabili muri.
Parto dal presupposto che l’esigenza di separatezza e la condizione di un disagio che conduce a tale bunkeraggio sociale costituiscono una problematica, più o meno consapevole, all’ordine del giorno, considerati i prevedibili disagi comunicativi post-pandemici.
Non riconoscere i limiti oggettivi di tale condizione ne esponenzializza i drammatici esiti, escludendo l’idea di elaborarne rimedio.
L’ irriconosciuta problematica ci segue pertanto implacabile, come l’ombra sotto il sole.
In sintesi, il preambolo inquadra la diffusione di un malessere che impone di escludere il prossimo, fra-inteso come presentificazione di un rischio cui perfettamente si iscrive il modello diffidente. Un modello che pare persino inorgoglire, malgrado tutto.
La paura-del-rischio esprime ed espone il calibro dell’astuzia, trovando soluzione ed epilogo in tutte le circostanze in cui l’interlocutore di turno assume ruolo subdolo, il cui previsto tiro mancino è prontamente smascherato e neutralizzato.
In un contesto così invischiato, pretendere dall’individuo una censura del proprio modus operandi ha le stesse possibilità, rimodulando una proposizione di Wittgenstein, di “gettar via la scala dopo esserci saliti”.
Rielaborando in sintesi il concetto, fino a che non matura l’idea collettiva dell’insensatezza del mezzo, il fine riscuoterà sempre ampia e convinta acclamazione. Massimiliano Barbin Bertorelli