In generale, da sempre, a seconda delle chances, l’individuo ha adottato criteri valutativi comodamente parziali, funzionali all’esaudimento delle personali logiche utilitaristiche.
Attualizzando la questione in termini occupazionali, l’individuo adotta criteri valutativi che simpatizzano e favoriscono sottotraccia i legami ereditari-clientelari, le appartenenze, le simpatie.
Tali criteri, qualificati sotto il pianeta misterioso della meritocrazia, necessitano, per essere soddisfatti, di prodursi in orchestrate e riservate macchinazioni, atte ad escludere motivatamente gli estranei.
Così si alimentano a vicenda familismo & parzialità, la cui portata, socialmente divisiva ed eticamente degenerativa, ha via via condotto alla “radicale distanza tra Istituzioni e Popolazione, tra Palazzo e Paese”, citando PP Pasolini.
In soldoni, il credito generosamente elargito all’appartenenza familistica, per logica clientelare, impersonifica il talento, persino quando è inadeguato.
Tale credito incornicia una meritocrazia che, quando seleziona i talentuosi da collocare nei gangli di un sistema, li individua, sopra tutto e sopra tutti, tra le onomastiche familistiche.
Una modalità selettiva molto lontana, ahimè, dalla considerazione secondo cui “l’eredità delle virtù e delle capacità degli avi non é sempre presente nei discendenti”, citando liberamente JW Goethe.
Nondimeno, malgrado le filastrocche sull’ imparziale combinazione talento-merito, a certi livelli apicali la prassi selettiva transita in modalità clientelare.
In conclusione, la formale scrupolosità nell’ ottemperare alle pertinenti disposizioni normative è sempre doverosa: diventa vitale, in specie, quando l’iter selettivo e il suo esito considerano “l’appartenenza come sosia del talento”, parafrasando Victor Hugo. Massimiliano Barbin Bertorelli