Nano Morgante. La famiglia, unità affettiva arcaica, si ripropone ciclicamente quale baluardo finalistico difensivo.
Essa, nell’ assolvere alla propria sacralizzata funzione educativa, esercita non di rado una grammatica affettiva insidiosa nei confronti dei propri stessi componenti.
Cosicché, malgrado si proclami portatrice di sagge finalità, tali finalità non tardano a rivelarsi afflittive & inflittive e a manifestare vistosi effetti collaterali.
“Quelle mezze ostilità che nascono in famiglia”, richiamando liberamente un testo di Mia Martini, non paiono infatti né estranee né eccezionali rispetto a tale luogo di frizione, usualmente disseminato di tensioni e paradossalmente concepito come luogo pacificante.
Questa “sgradevole entità chiusa”, per dissacrante definizione di Krishnamurti, mal-sopporta le spontanee giovani istanze, eleggendo quelle adulte. Detto fatto, menzionando a pretesto l’ irriverenza classista di Karl Kraus, “se il difetto originario dell’uomo di genio é provenire da una famiglia, il suo pregio é non costituirne altra”.
La sostanza archetipica su cui si fonda questa entità sopraffattiva prevede la conversione di ogni pensiero autonomo in un ordine monolitico a finalità produttiva.
Da un lato, quindi, la famiglia segue la propria vocazione impositiva sotto forma di buone ragioni e blocca sul nascere ogni divergenza interna, considerando inaccettabile “disgrazia avere un figlio che vuol fare il poeta”, citando l’esempio di J.Locke; dall’altro, la pace domestica, esito della sopraffazione, è misurata da una volontà padrona incurante di ogni pensiero inespresso (che quando trova la forza di rivelarsi scatena incontrollabili effetti).
A conti fatti, una sintesi delle tipiche dinamiche di questo luogo pacificante resta così utilmente rappresentata da I. McEwan: “la sottomissione è una forma di tributo alla tradizionale importanza assegnata alla famiglia”. Massimiliano Barbin Bertorelli