E’ sotto gli occhi di tutti una mimetizzata sudditanza dell’uomo nei confronti della collettività.
Ed anche quella, meno evidente ma altrettanto imponente, nei confronti di un sé incentrato nel rispetto degli obblighi che la Società impone in cambio della propria “protezione”. Obblighi, solidali ad un vivere civile, che accentuano progressivamente nell’individuo, col loro estensivo agire, la distanza tra immaginazione e realtà, tra gioco e serietà.
E’ una dato costante assistere ad un clima sociale disarmonico rispetto ad una visione condizionata di “felicità”, avulsa dall’ “impulso del gioco”, veicolo di “liberazione della realtà dalla sua componente seria” (cit. Schiller).
Nondimeno, il termine stesso di felicità, così edulcorato ed inattuale, si limita ormai a descrivere mestamente l’esaudimento, fugace e lacerante, di “bisogni” artificiosi.
Non è detto, in tal senso, che si approvi e si adotti, per conseguenza, una linea di pensiero che conduca ricorsivamente allo stesso luogo di partenza, come nella circolare immagine dell’oroboro, il serpente che insegue e divora la sua stessa coda. E che riproponga la concezione ciclica del tempo pagano, in sostituzione di quella lineare più consona alla cristianità.
In buona sostanza, il prezzo da pagare per il progresso in atto è quello che, più facilmente che in noi stessi, riscontriamo quotidianamente negli altri: un malessere che giocoforza ci relega al “principio della prestazione”, misconosciuto ogni svago privo di ritorno pratico.
Ci si può chiedere se l’auto-sufficienza, intesa come contemplazione attiva ed autonoma di sé, estranea ad ogni sterile implicazione di egotistica necessità, sia un obiettivo, prima ancora che una premessa, raggiungibile. Quanto meno, pensabile.
Massimiliano Barbin Bertorelli