E’ fastidiosamente subdola e quanto mai diffusa la categoria umana che imposta ogni rapporto inter-personale con l’unico palese proposito di trarne utilità.
Una categoria che, ad esempio, quando decide di contattarti, non sperare lo faccia per simpatia e per spirito conviviale: lo fa solo con l’idea sottotraccia e strumentale di chiedere ed ottenere qualche beneficio, vuoi riconducibile alla propria sfera economico-professionale, vuoi alla sfera dei personali bisogni.
Ciò evidenzia quanto il “pervertimento dell’utile”, dell’utilità come unico parametro, tenda a costituire la principale spinta propulsiva nei rapporti umani, in sostituzione di una spinta affettiva oggidì in rimessaggio.
Tale approccio utilitaristico, prodotto tipico di una società massimizzante e consumista, esprime un tessuto socio-relazionale fragile quanto inconsistente.
Un tessuto finalizzato a dispiegare intenti solipsisti e performanti, laddove, al contrario, ogni intento altruistico, si guadagna la cosiddetta “ermeneutica del sospetto”: quel generale clima di malfidenza in cui ogni spontanea azione solidale incontra e subisce il sospetto degli astanti.
Con somma evidenza, se ciò da un lato smorza la finalità conviviale insita nell’intento socio-aggregativo, dall’altro le sempre più rare esternazioni sincere di bonarietà rischiano di essere fraintese e stritolate tra diffidenza ed incredulità.
Sia come sia, la ideale rappresentazione dell’approccio utilitaristico sta proprio nella sua strumentale curiosità, laddove, in presenza di interessi personali da soddisfare, la relazione inter-personale deve rivelarne nel breve le potenzialità ed i vantaggi.
In tal senso, nell’assistere all’attuale scadimento dei rapporti, pur senza generalizzare oltre misura, se è lecita facoltà provare rammarico dinanzi a tali comportamenti, non lo è più tuttavia sorprendersi del comportamento umano medio, nella misura in cui, scomodando l’Ecclesiaste biblico, già si trova scritto: “c’è forse qualcosa che possa dirsi novità?”.
Massimiliano Barbin Bertorelli