Salta immediatamente agli occhi la corrente condizione, oppressiva e apprensiva, che l’essere umano ha costituito per sé prima ancora che per gli altri.
Già da tal genere di azioni, passate e presenti, connotate da replicanza e da prevedibili e compromessi esiti, emerge l’ insensatezza di fondo.
Talché, la considerazione provocatoria e nichilista di pensare che l’essere umano sia in sé un genere rabberciato alla bell’e meglio e che, estensivamente, lo scopo della sua esistenza non sussista nelle forme auspicate, che sia una truffa di dimensioni cosmiche, un grande bluff, assume tonalità di senso. Quantomeno narrativo.
Pur tuttavia, in quanto esseri viventi e pensanti, non abbiamo difficoltà a comprendere l’esigenza dell’uomo di assegnarsi significati più o meno compensativi, immanenti e trascendenti.
“La vita é più tollerabile alle nature leggeri”, citando Emil Cioran, specifica una condizione preferenziale di partenza, rispetto alla condizione di dubbio in trattazione.
Fatto sta che la realtà dell’esistenza, osservata da una giusta distanza, da un punto sufficientemente decentrato, non guadagna immediato senso: né più né meno di un formicaio, osservando il suo incessante lavorio.
Per altro verso, non trarremmo alcun vantaggio esistenziale nel dare seguito a chi ci avvertisse per tempo, similmente al memento trappista, dell’insensatezza della nascita e della nostra totale marginalità: ciò rifacendosi, pur vagamente, al pensiero del fisico Richard Feynman secondo cui “il palcoscenico è troppo grande per la rappresentazione in corso”.
L’individuo, con l’avventura radicalmente imprevedibile del nascere, col suo stordirsi tra adempimenti e desideri, esige una auto-assegnazione di senso implicata all’auto-coscienza e la scoperta esperienziale del sacro
La compresenza di tale afflato è ulteriore riprova del limite, giacché è risibile un tipo di sensatezza che, nello spasmo del bisogno, generi auto-afflizione e affligga l’ ambito in cui insiste.
Esteso il concetto che “lo stato d’animo tecnico-scientifico ha portato al paradosso che quanto più le forme di vita vengono organizzate razionalmente su basi generali, tanto meno viene esercitata la capacità di giudizio del singolo” (cit. Hans Gadamer), l’esito maldestro autoprodotto esonda oltre gli argini personali e fonda una comunità umana accanita sul quando & quanto, piuttosto che sul perché.
In conclusione, senso o non-senso che sia e visto che quando si è in ballo si deve ballare, rappresento, a chi mai leggerà, la sensatezza di “agire in modo che ogni atto sia degno di diventare un ricordo”, scomodando Kant.
Massimiliano Barbin Bertorelli