Ogni pensiero riferito alla “fretta” esige un alto tributo, un più o meno consapevole sacrificio sull’altare del tempo personale.
Non a caso, le possibilità di giungere ad un luogo ideale, di stazionarvi o comunque di transitarvi, scontano sempre un’idea di ritardo, rispetto ad una fretta pre-costituita.
Quell’ orologio interiore che in noi intimamente ticchetta ci impone l’usuale ritmo quotidiano. Quel ritmo che ben osserviamo, volendo, poiché un ritmo si può anche vedere, non solo ascoltare.
L’insieme dei sensi è totalmente coinvolto in tale processo cronòfago, fatalmente compromesso dall’idea di un “ritardo”, rispetto ad un tempo da noi stessi deciso.
In ogni azione insiste la zavorra di una programmazione e di una logistica, da cui se ne può derivare un senso di inadeguatezza, ancorché inessenziale ed immeritato, che tuttavia tende a tracciare una linea di demarcazione nelle fasi dell’esistenza individuale, un confine invisibile collocato tra “adesso” e “poi”.
Questo tipo di comportamento detiene una forma di supremazia nell’ umana esistenza, laddove ormai è perduta la “padronanza”, la “capacità di interrompere un’azione, riconoscendo la decisiva perentorietà dell’istante”, menzionando Blanchot.
In definitiva, la verisimiglianza della concezione di attività innesca un demone vorace, che divora ogni spazio interstiziale, utilmente destinabile al di-vertimento, inteso come sublime, ormai reietta, di-versione dello sguardo dalla pura necessità.
Se quindi mettiamo in fila le incombenze precostituite che, dalla nascita, a vario titolo, competono ad ogni essere umano, rischiamo di rimanere a bocca asciutta di tempo personale, per esaurimento della quota disponibile.
Postulando la sufficienza di tale quota a disposizione, ma anche un suo malaccorto utilizzo, non ci si stupisca quindi di trovarci fatalmente in ritardo sull’anticipata assegnazione di significato alla nostra esistenza.
Massimiliano Barbin Bertorelli