Rinviando ad altra occasione un commento sul circolo vizioso dell’aggressività umana, avvio nel frattempo una sintetica trattazione sull’arroganza, categoria del pensiero oggidì culturalmente iper-nutrita.
Partendo da tale obiettivo, ne è presupposto osservare la detenzione, da parte di menti compromesse (anche) da condizioni tenacemente desideranti, di una qualità scadente del proprio pensiero sociale.
Solo accennando al fenomeno per cui, citando Nietzsche, “il pensiero viene quando vuole lui e non quando io voglio”, tale detenzione, tanto avida quanto insoddisfatta, andrebbe invece, con convinzione, sospinta in un alveo meno materiale e tormentato.
Senza un ordine di apparizione, né un prima né un poi, né un avanti né un indietro, ogni atteggiamento così ristretto ed ego-centrato dimensiona e riduce l’esistenza personale ad una visione tale da capitalizzare e differenziare ogni rapporto sociale in base all’utilità conseguibile e/o secondo l’ abitudinario esercizio di molteplici forme di abuso di potere.
In tal senso, pare illogico, almeno in apparenza, narrare di una massificazione dell’arroganza e degli effetti correlati anzidetti, tanto più in un contesto in cui il concetto di massa é ormai estraneo all’odierno asse gravitazionale.
Sia come sia, la narrazione commenta la sensazione pervasiva di una arroganza del potere come fenomeno di costume, causa-effetto del progressivo scollamento sociale in atto e di una latente divisività interpersonale.
Il fenomeno coinvolge tanto il comune cittadino, nelle sue distinte funzioni, quanto il comune rappresentante politico, nel rispettivo ruolo assegnato: non dissimilmente dall’immagine ancipite del Giano bifronte o de “Il nano Morgante” (dipinto del Bronzino), facce della stessa persona.
Cosicché, ad ogni livello, l’evidente distacco degli eletti dagli elettori, irriverente baluardo di un preteso privilegio, esemplifica l’esercizio medio del potere, il cui manifestarsi quotidiano traduce la latitanza della propria fisiologica funzione e non tarda, tra l’altro, ad evidenziare criticità nel rapporto cittadino-Istituzioni.
In sostanza, da un lato insiste il proclama democratico del criterio di uguaglianza, dall’altro insiste la sintesi praticata, eticamente incoerente, di una netta differenziazione delle categorie sociali.
E’ frequente inciampare nell’espressione di tale alterigia del potere, nelle disparate forme, anche spicciole, in cui si propone. Ciò resta una forma incompatibile con un’idea evoluta di convivenza. Tuttavia, talmente leggibile nelle singole modalità da non lasciar dubbi sulla limitatezza del pensiero da cui promana.
Dinanzi a questa umana condizione di limite, ricoprendo nel concetto la titolarità simbolica che spetta, ahimè, al potere politico e concludo con una provocazione comodamente mediata da considerazioni di Luigi Einaudi: “Il Governo della maggioranza è cosa mostruosa, peggiore del governo assoluto”. Massimiliano Barbin Bertorelli