Il moderno meccanismo sociale per cui l’individuo dilapida o risparmia la propria fiducia è supportato dalla previsione di dimostrazioni materiali, similmente alla pretesa di toccare con mano rappresentata da Caravaggio ne “L’incredulità di San Tommaso”.
Un meccanismo e-semplificato, tra l’altro, dalle conclusioni di un’ indagine ISTAT del 2015 (pietosamente congelata all’oggidì) secondo cui l’ 80% degli italiani si dichiara sfiduciato dal prossimo e dalle Istituzioni.
Per entrare nel vivo dell’argomento, l’ammaloramento del sentimento della fiducia è anche materialmente dimostrabile dall’odierna dinamica inter-generazionale tra nonni e nipoti e, in generale, tra anziani e relativa discendenza.
Dalla “collettività primitiva come unico organismo vivente”, per definizione di André Breton, promanava un organigramma che non disponeva dell’anagrafe dei componenti: l’età era dimostrata ipso facto dalla capacità di assolvere alle funzioni socialmente assegnate, via via ri-adeguate nel tempo.
Differentemente, la sottoposizione ad una inesorabile classificazione anagrafica ha prodotto, a parte la falsa retorica sul valore dell’anziano, la fattuale sfiducia familiare verso una categoria sconnessa dal mondo del lavoro e quindi sconnessa dal mondo dell’esperienza.
In altre parole, la società protende nel valorizzare l’esperienza individuale in combinazione con la fase lavorativa del soggetto.
In questo ambito, l’estromissione dal lavoro della categoria dei vecchi (salvo i casi particolari) determina la perdita di ogni dotazione esperienziale anche nei confronti della cerchia familiare.
Non per niente, all’interno della cerchia affettiva di riferimento, la funzione residua in capo a tale isolata categoria é quella del sostegno economico sotto forma di pensione, prima, e sotto forma di eredità materiale, poi.
A riprova dell’irriverente asserzione, questa funzione di sostegno della vecchiata viene svolta a 360 gradi nei confronti di ogni componente familiare, nella misura in cui la discendenza adulta, pre-angosciata dall’immanenza del destino senile, resta ahimé disperatamente abbarbicata allo stato di perenne adult-escenza.
Con specifico riguardo al tramandamento del proprio vissuto, la figura sociale del vecchio emana la propria condizione di in-utilità, più o meno come la figura del lampionaio ne “Il piccolo principe”.
L’ irriconoscimento valoriale verso tale categoria anagrafica diviene segnale di una famiglia disgregata che rassegna le dimissioni dinanzi al modello-comunità rappresentato nell’omonimo film di Ettore Scola (1987).
Di fatto, la figura retorica del nonno resta marginalizzata in un teatrino affettivo in cui l’aggettivo insipiente bene ne descrive l’altrui percezione.
In ultima analisi, l’impoverimento della società è di-mostrato dall’ invisibilità di un vecchio che non suscita più la stupefatta curiosità del bambino di cui cantava Francesco Guccini nell’omonima canzone (1972). Massimiliano Barbin Bertorelli