Il sano e legittimo desiderio di “felicità”, intesa come condizione di soddisfacimento interiore, non può pretendere di esaudirsi attingendo ad una condizione distante ed avulsa dagli originari desideri dell’essere umano.
L’asserzione di Freud secondo cui “la felicità è soddisfazione ritardata di un desiderio preistorico”, potrebbe far meglio comprendere perché il tanto gettonato “denaro”, non impersonando alcun desiderio dell’infanzia, non potrà mai condurci a tale ambizioso e glorioso traguardo.
In buona sostanza, stante il fondamento ontologico della natura umana, da cui discende una netta preordinazione di condizioni interiori (dalle quali è impensabile scantonare senza effetti collaterali), l’idea di una contaminazione appetitiva dei desideri conduce l’ “umanottero” (cit. A.Busi) ad un traguardo impersonale, estraniante ed inessenziale.
Da tale miraggio ne giunge la sminuizione di sé e la contestuale intrapresa di una “perenne dinamica del desiderio”.
In tal senso, nella saggezza di Epicuro: “il desiderio illimitato è il principale ostacolo alla felicità”, identifico la confusa identità umana contemporanea, dispersa nei voluttuari rivoli di ipertrofici ed estenuati bisogni.
Pertanto, l’idea, ostaggio di “passioni tristi” e di “sentimenti irrisolti”, di trarre durevoli benefici con tali convenzionali modalità pare davvero un miraggio, una fantasia ossessiva.
D’altro canto e per altro verso, si fa presente anche la saggezza antica di una maledizione cinese, dissimulata nel buon auspicio: “possa tu esaudire ogni desiderio”.
Riassumendo: da un lato, citando Epicuro, il costante desiderare è motivo di infelicità; dall’altro, analogamente, per orientale menzione, pare esserlo anche l’esaudire & l’esaurire ogni desiderio.
Quindi, come la giri la giri, la questione è rimessa, come sempre, all’ interiore capienza dell’uomo, all’ “ego fatum” di Nietzsche.
Massimiliano Barbin Bertorelli