La premessa consiste nel ribadire un concetto, giusto per citare F. Hegel, “noto, ma in quanto noto, non conosciuto”: i titoli di un curriculum professionale, mirati a definire la competenza lavorativa, non sono sufficienti ad accertare le effettive competenze del titolare.
Dunque, trattasi di un concetto noto e dis-conosciuto da una burocrazia che, nell’ affrontare ad esempio la selezione del personale destinato agli incarichi istituzionali, tende per comodità valutativa a trasporre direttamente il mero dato tecnico-curriculare in capacità&titoli.
Pertanto, dinanzi al passe-partout di un buon curriculum, la burocrazia (a fortiori confortata magari da prove d’esame collaterali perlopiù inconferenti) applica convintamente e inesorabilmente tale automatismo selettivo.
Ammessa e non concessa la bontà della premessa, pare tuttavia che mediamente non ci sia poca cura nel verificare, in capo al candidato di turno, le competenze extra-lavorative: la sussistenza, in particolare, delle cosiddette life skills (le fondamentali attitudini socio-relazionali).
Riconosciuta nondimeno l’ oggettiva difficoltà insita in ogni valutazione di requisiti immateriali (quali, ad esempio, la capacità di motivare e di dirigere un team), resta un intrico di criteri selettivi rigorosi e abilmente formulati, nei quali si può a volte aggirare un fantasma, la cui oscura presenza, privacy permettendo, non è difficile da dimostrare: basta scorrere e collegare tra loro i dati anagrafico-nominativi dell’ organigramma aziendale di riferimento.
In sintetica e generale conclusione, non è raro che la burocrazia, di certo non facilitata, per sue proprie caratteristiche, a riconoscere e verificare requisiti personali non sempre amministrativamente documentabili, tende a blindare le procedure selettive (e il loro esito) e, proprio in conseguenza a tale assegnazione curriculare, in pari misura a confezionarle come best practices meritocratiche. MBB
