Per ovvietà geografico-statistica, chi abita in una grande città dispone di una potenzialità di contatti e di incontri decisamente più estesa di chi abita in un piccolo centro.
A prescindere, oggidì è comunque facile intercettare fisicamente una discreta quota di umanità senza ricorrere allo strumento social. Fatto, quest’ultimo, che tende a proiettare l’individuo in una spirale di isolamento contrapposta alla dimensione presuntivamente globalizzata del mondo attuale.
Malgrado tutto, evoca il paradosso l’esiguo numero di persone fisiche verso cui l’individuo urbanizzato si rende disponibile e la ristretta dimensione relazionale in cui transita la sua proverbiale natura di animale sociale.
Tale rarefazione è in qualche misura implicata alla preponderante incidenza della componente tecnologista quale dominus relazionale e a certo spaesamento emotivo che penalizza e ipoteca la “vita a tetra contabilità difensiva” (cit. J.Baudrillard).
In questa misura, gli affetti, in particolare le amicizie, tendono a mummificarsi alle ormai perdute possibilità risalenti all’età fanciullesca, fino a riecheggiare “siamo amici perché eravamo amici” (cit. Luigi Meneghello) e fino comporre un individualismo in cui “tutti vogliono un amico ma nessuno si occupa di esserlo” (cit. Alphonse Karr).
L’ umano contemporaneo poco riflette e nulla confida sulla utile possibilità di sviluppare, in qualunque circostanza e a qualunque età, relazioni amicali sincere.
A prescindere dai luoghi comuni, anche da adulto insiste la possibilità di costituire seri legami affettivi, a patto di abbassare la corazza ragionieristica di cui l’individuo si dota, a patto di voler evadere da certo isolamento domestico, a patto di rinunciare al muro di confine difensivo che convintamente erige, persino nei confronti degli affetti familiari.
In tale arido scenario si sviluppa l’attuale frenetico e condizionato modus vivendi, la cui sintesi riecheggia nella profetica rappresentazione del “Cane al guinzaglio” di Giacomo Balla. Massimiliano Barbin Bertorelli