L’essere umano, oggidì, ha un rapporto col tempo personale particolarmente tormentato, coerente con la modalità cronofaga in auge e che lo fa assomigliare ad un rapporto sentimentale, tendenzialmente nevrotico, con pochi alti e tanti bassi.
Per sintetizzare brutalmente, nella Società occidentale contemporanea tale tumultuoso alterno rapporto non poco risente del senso di vuoto che l’individuo percepisce dinanzi ad un codice morale in rimessaggio e dinanzi a tante, troppe, inarginate paure.
Ne esita una condizione angosciata e afflitta, dove il tempo si pone a memento della finitezza umana, costantemente contrassegnata dal susseguirsi di inesauste ambizioni.
D’altro canto, la complementare idea che le ambizioni diano senso e pienezza alla vita pare una condizione cui é possibile adunghiarsi, a patto di vedere il trascorrere del tempo come circostanza favorevole a saziare la curiosità e non come progressiva rinuncia al proprio originario orizzonte di possibilità.
Com’è noto, l’uomo manifesta in vari modi la necessità delle proprie pulsioni, implicando un poco virtuoso meccanismo che “soffoca i desideri con i bisogni e sottomette la vita alla tirannia beffarda dell’orologio” (cit. J. Goytisolo): tanto beffarda e paradossale da attribuire a questo oggetto da polso un significato di status.
D’altro canto, é nell’ambito della vita quotidiana che l’uomo fa “esperienza della propria mortalità, della propria fragilità e dello scacco dei propri progetti” (cit. G. Lukacs).
Il fatto di temere il tempo e di esorcizzarlo drammaticamente in ogni circostanza, crea una barriera invalicabile rispetto alla nostra idea di felicità, di per sé inesaudibile.
Ne consegue un’idea di scorrimento dissolutore del tempo da rivedere e correggere. Come anche da riposizionare è l’ incidenza emotiva che ne deriva.
In sintesi, arginare l’ ossessione cronometrica resta una sfida da affrontare e vincere. Con urgenza. Massimiliano Barbin Bertorelli