Nano Morgante. In quale misura la vita ha esaudito e soddisfatto le nostre originarie pretese di successo?
La decisività implicata alle possibili risposte al quesito può incutere un certo timore, poiché quando è rivolto in prima persona potrebbe smascherare sottaciuti pensieri vuoi per obiettivi eventualmente mancati, vuoi anche (soprattutto) per l’ impegno profuso in cause alla fin fine deludenti e indesiderate.
In soldoni, quando orientato all’apparenza, all’esteriorità, il quesito offre l’immediata poderosa risposta di un traguardo professionale da celebrare sul podio delle occasioni sociali; viceversa, quando orientato all’interiorità, al proprio sé, può dissotterrare sentimenti dolenti, divergenti rispetto a quelli usualmente previsti.
Fatto sta che i traguardi sociali personali si celebrano in piazza sempre felicemente compiuti, laddove è norma plateizzarli manifestandone la pretesa di felicità.
Nondimeno, anche quando l’individuo non fa trapelare doglianze, una conquistata buona reputazione non per forza esaudisce una quota stabile di soddisfazione.
In tale caso, l’introspezione del quesito suscita immediato riserbo per la possibile riemersione dalla memoria dei momenti in cui i personali trascurati traguardi nascevano incondizionati, spontanei.
In altre parole, essere soddisfatti di ciò che si ha è più che ottenere ciò che si vuole (a maggior ragione quando s’impone un volere altrui). Diviene quindi imperativo impegnarsi a capire i nostri veri desideri piuttosto che affannarci a inseguirli e soddisfarli, giusto per evitare nel tempo gratificazioni falsamente seduttive.
L’ appetitus boni, la protensione in specie ad esigere un meglio suggerito da altri, non esita a condurre al dubbio commercial-esistenziale: soddisfatto o rimborsato?
Dinanzi a tale dubbio, ahimé, è d’obbligo manifestare soddisfazione, poiché l’opzione del rimborso (del tempo mal-speso) sarà sempre una falsa, impraticabile opzione. Massimiliano Barbin Bertorelli